Arte e spiritualità da Filosofia delle immagini di Wunenburger

Arte e spiritualità      da pagina 329 a pag 333  -Filosofia delle immagini di Wunenburger-

Il pensiero sembrerebbe inseparabile dal linguaggio verbale e dalla sua facoltà di concettualizzazione. Di fatto, è difficile vedere nelle arti plastiche, che ricorrono a un linguaggio di visive e non verbali, un sistema d’ attivazione di idee, o una modalità del pensare. Le opere visive finché restano figurative, sembrano avere quale referente privilegiato il reale, che esse riproducono, traspongono o interpretano al solo scopo di rappresentare visivamente il mondo sensibile. Se mai si può rilevare che in determinate epoche gli artisti interpretano l’immagine del reale in senso allegorico, arricchendo cosi la rappresentazione oggettiva di un senso latente che illustra un’idea ulteriore, peraltro enunciabile per via verbale e concettuale.

L’avvento della pittura non figurativa, all’inizio del  XX secolo, obbedisce, per contro, a un doppio progetto: non soltanto rinunciare al di rappresentazione degli oggetti, ma rivelare anche la struttura invisibile del mondo (Di qui la nascita di una pittura metafisica per definizione in De Chirico e Magritte, per esempio).  Astrarre il reale, astrarsi dal reale, può portare a cogliere pittoricamente modalità del sensibile sciolte dal loro vincolo con gli oggetti comuni, per cui un colore puro può essere usato indipendentemente dalla colorazione reale di una persona o cosa e fungere da proiezione di uno stato d’animo del soggetto. L’ può dunque aspirare, proprio in virtù del contenuto sensibile dei colori, delle e delle cromatiche, a cogliere figurazioni sovrasensi-bili. Il tende, in tal caso, a iscrivere nel sensibile determinate categorie metafisiche, quali lo stato informe e indifferenziato dell’Uno, la manifestazione dell’Essere nella luce primordiale, il confronto tra l’Essere e il nulla, il dispiegamento originario del molteplice, ecc. La pittura non è più, allora, rappresentazione del visibile, bensì espressione di contenuti del pensiero metafisico, di idee relative alla sostanza primigenia del tutto o ai nodi principiali dell’assoluto. Non è un caso che i promotori dell’arte non figurativa  – Kandinskij, Klee, Mondrian, Malevic – abbiano collegato la loro arte a interessi per il pensiero gnostico o teosofico. e Mondrian legano così la loro avventura pittorica agli scritti di Sãr Péladan, di Rudolf Steiner o di M.me  Blavatsky,  personaggi che hanno cercato di sciogliere i propri legami con la materia e con lo spirito per attingere l’Assoluto. L’astrazione si presenta appunto come una dell’Assoluto, ove il visibile pittorico è la premessa indispensabile per raggiungere le profondità abissali dell’Essere. In Malevic, ad esempio, «il quadrato bianco su fondo bianco è come l’aurora del disvelamento dell’Essere che sale lentamente dal fondo del suo abisso; e inabissarsi nel bianco è immergersi nell’infinito». Parimenti, come nota J. Brun: «La pittura di Mondrian è un tentativo di disincarnazione per mezzo del geometrismo astratto:  all’interiorità esteriorizzata nel e dal Mondo, Mondrian ha inteso sostituire quella che chiamava ”l’esteriorità interiorizzata”, poiché “l’astratto è un’interiorità condotta alla sua più  limpida definizione, o, ancora, è l’esteriorità più intimamente interiorizzata” ».

In tale contesto, è evidente la capacità del sensibile di essere modo d’espressione immediata di un senso trascendente. E una dimensione significante del sensibile che compare tanto nella rappresentazione grafica quanto nella fenomenicizzazione del colore. Kandinskij, ad esempio, sviluppa una sorta di fenomenologia grafica delle elementari per fare affiorare le loro valenze metafisiche:  disegnare la pili piccola forma possibile su una superficie vergine, cioè un punto, consente in qualche modo di raffigurarsi l’aurora dell’Essere. E basta spostare un punto sul foglio bianco per far trasparire semanticamente tutta la sua forza interna. «Isolando a poco a poco il punto dal cerchio ristretto della sua azione abituale, le sue caratteristiche interne, finora mute, esprimono una risonanza moltiplicata. Caratteristiche  – tensioni interne –  che si liberano a una a una dalle profondità del suo essere e sprigionano energie luminose». Per cui la forma materiale, nel momento in cui si manifesta un’interiorità, lascia trasparire una dimensione  spirituale, una «sonorità» che va a incrociarsi col tracciato della linea, laddove le diverse ondulazioni producono  a loro volta una varietà di forme astratte. Possiamo dunque affermare, secondo la formula di Klee, che «l’arte non riproduce il visibile, lo rende visibile».  L’atto del dipingere, a questo punto, non si ferma più alla frontiera del reale, diviene se mai tutt’uno con un’Idea che si esprime nell’atto stesso, come l’invisibile Verbo divino all’inizio” della creazione del mondo. «Un tempo si rappresentavano le cose che si potevano vedere sulla terra, che si voleva o si sarebbero volute vedere. Oggi la relatività del visibile è divenuta palese, ed è ormai una convenzione leggere in ogni cosa una semplice manifestazione particolare della totalità dell’universo, abitato da innumerevoli verità latenti. Le cose rivelano cosi un senso dilatato, tanto complesso da minacciare, almeno in apparenza, il vecchio razionalismo».

Con le opere non figurative non è più solo in gioco la di una nuova percezione del mondo, è in gioco l’assunzione, all’interno dello spazio visivo, di contenuti che già furono patrimonio concettuale delle grandi tradizioni  ermetiche, occultistiche o mistiche. Possiamo dunque, e a buon diritto, vedere nell’atto del un modo alternativo di condurre il pensiero al cuore delle questioni fondamentali, e un modo di orientare la riflessione visiva su qualcosa di anteriore allo stesso mondo fenomenico. Per questo l’arte contemporanea, in alcune delle sue componenti  plastiche, non è più riconducibile ad alcuna riproduzione del reale e si presenta se mai come un’esperienza di figurazione di contenuti ideali, di dati immateriali. Non ci si deve quindi meravigliare che essa susciti a sua volta una ricca esegesi, spesso riformulata col corredo di un vocabolario e di una sintassi metafisici. Il linguaggio del critico, il quale può essere egli stesso artista, coltiva infatti l’ambizione di ritradurre nei termini della filosofia speculativa ciò che è stato appreso nell’immediatezza dell’atto percettivo. La contemplazione delle opere astratte si offre, in certo modo, come un esercizio per mezzo del quale il soggetto tenta, per via aconcettuale, di rendersi compresente a una realtà sovrasensibile. L’arte, cosi, diventa davvero la continuazione della meditazione metafisica con altri mezzi. E l’arte del XX secolo in particolare si ricongiunge, a suo modo, con una tecnica antica, ampiamente utilizzata da alcune tradizioni spirituali, di costruzione di oggetti speculativi, diagrammi, schemi visivi (la spirale, ad esempio) la cui faccia visibile, geometrica e colorata, ha il compito di fare accedere lo spirito alla faccia invisibile, coinvolgendolo in un processo di metamorfosi interiore.  Il mandala, ad esempio, si presenta come un supporto simbolico le cui proprietà morfologiche ed estetiche devono consentire di predisporre lo spirito alla meditazione e di guidare i contenuti psichici verso uno stato mentale in cui il pensiero ritrova una condizione irripetibile di visione dell’Essere, dell’Assoluto. In un contesto essenzialmente spirituale, più che religioso, molte opere pittoriche contemporanee possono considerarsi quali strumenti analogici equivalenti al mandala. L’immagine sensibile non è più fine a se stessa, anzi, fa scattare modificazioni spirituali talmente sensibili alle e ai da attivare nel soggetto circuiti intellettuali inesauribili. Di conseguenza, l’arte può servire, intenzionalmente o meno, da percorso filosofico, dove l’aggettivo «filosofico» non allude e non può alludere a qualcosa di deliberatamente intellettualistico: allude piuttosto a processi mentali attraverso i quali il soggetto può pervenire all’intuizione di una verità nascosta.

 4. L’immaginario delle opere d’arte.  Da Pag.393 a pag.396

L’immagine non appare forse da nessuna parte tanto vicina alla propria vocazione e alla propria autentica virtualità come nel campo dell’arte, che raccoglie tutte le attività creative intenzionalmente rivolte al trattamento dell’immagine. L’arte riassume in qualche modo tutte le peculiarità delle immagini e condensa nella propria sfera d’esperienza e di rappresentazione tutte le funzioni, altrimenti frammentarie e parziali, pertinenti all’immagine. Tuttavia un’opera d’arte è innanzitutto una semplice realtà materiale, che si aggiunge alle naturali o si sovrappone a esse. Un tempio è un edificio prima di tutto funzionale, che interagisce con l’immagine solo perché determinate sue forme sono analogiche e simboliche. Allo stesso modo, se è giusto dire che un è una superficie dipinta, non è meno giusto dire che è una cornice di legno e una tela rigorosamente bianca, cosi come le immagini di una poesia esistono prima di tutto grazie all’inchiostro che, impresso sulla carta, andrà a formare un libro contenente anche quella poesia. Un’opera d’arte è dunque la risultante dell’incontro, con  spettanze variabili, tra un materiale, dotato di proprietà fisiche, e un’immagine visiva o auditiva o altro. Come arriva, allora, l’immagine a modificare il substrato materiale, in modo da apparire come immagine artistica sia a colui che la crea sia a colui che la contempla, e in quale misura arriva a trasformare l’esistenza di una persona? Vivere per l’arte, per il suo mezzo e per il suo fine, ha un senso ?

In origine, l’arte si confonde con la disposizione di una struttura culturale. La produzione artistica si integra con altre funzioni sociali utilitarie, magiche, politiche, religiose. Armi, utensili, edifici vedono le loro funzionali completate o rettificate dalle immagini, che ne migliorano l’ o l’arricchiscono di significati (illustrazioni di miti, emblemi, ecc.). Le rappresentazioni che cosi si uniscono alle possono aspirare a una certa autonomia, ad esempio nella statuaria, in cui la figura scolpita rinvia a una  funzione simbolica: effigi del potere, feticci religiosi, ecc. creazione puramente disinteressata, il culto della rappresentazione pura, la necessità di creare senza altra finalità che non sia l’arte fine a se stessa, sono caratteristiche recenti della storia dell’arte. La conservazione delle immagini e la loro raccolta finalizzate a uno scopo puramente estetico riescono solo da poco tempo a fare del museo un luogo di esposizione di immagini destinate ad appagare un piacere scopico (relativo al guardare), sinottico (riassuntivo, schematico), un luogo in cui le opere, affrancate in  qualche modo dalla loro origine e dal loro tempo, vengono ammirate per la loro intrinseca bellezza. Non sarebbe dunque possibile individuare una finalità univoca e costante nella creazione delle immagini. Tutt’al più si potrebbe essere indotti a constatare che l’umanità sente il bisogno di abbellire e arricchire le forme che essa stessa si crea, fino a valorizzare atteggiamenti estetici quali il puro godimento delle opere. E con l’estetizzazione dell’arte nella civiltà moderna, sempre accompagnata da una qualche desimbolizzazione e desocializzazione delle opere, tocca il suo apice una delle motivazioni più profonde dell’immagine: il piacere.

L’arte è cosi la testimonianza di un bisogno universale dell’uomo, quello di creare immagini anche quando esse non obbediscono più a un’utilità funzionale. Secondo Aristotele: «L’istinto della rappresentazione è innato nell’uomo fin dall’infanzia – anche in ciò l’uomo si distingue dagli altri animali, in quanto è più incline alla rappresentazione e con essa acquista le sue prime cognizioni – cosi come è innato il  piacere che tutti traggono dai prodotti della rappresentazione. Una prova di ciò ci viene dall’esperienza pratica: anche di cose che vediamo con disgusto ci fa piacere una rappresentazione eseguita con la massima cura, come la rappresentazione delle bestie più immonde e dei cadaveri».  L’homo aestheticus, creando per il piacere un’altra immagine del mondo, un altro modo di manifestare le cose, modifica insieme il proprio mondo interiore e il proprio mondo  esteriore. L’uomo, per un verso, crea immagini per oggettivare esperienze sensoriali, affettive, immaginarie, come se il loro intimo vissuto, che rimane nascosto e silenzioso, non potesse restituire tutta la loro intensità e ricchezza. L’espressione in forma di opera d’arte appare perciò come un prolungamento spontaneo, uno spazio di realizzazione, di fissazione e di espansione per la soggettività. Sennonché, con tale rappresentazione, l’artista esprime anche qualcosa di inedito su un versante più esterno, svela un modo di essere del mondo che sfugge all’oggettività astratta e concettuale. Per Cassirer: «Il linguaggio e la scienza sono abbreviazioni del reale; l’arte è un’intensificazione. Linguaggio e scienza si fondano su un unico e medesimo processo d’astrazione; l’arte è invece come un pensiero continuo di concretizzazione … Non cerca le qualità o le cause delle cose, ci dà piuttosto l’intuizione delle forme». L’oggettivazione consente nello stesso tempo la del vissuto, del sentire e del vedere, e rende cosi possibile una condivisione, una partecipazione interindividuale. L’immagine artistica, dato che esteriorizza la soggettività, favorisce invece una relazione intersoggettiva.

All’altro capo, l’attività di ricezione delle immagini artistiche tocca ciascuno di noi a livelli diversi: certe opere si limitano a fare spettacolo, consentono di sospendere la serietà e l’austerità del vivere aprendo una parentesi ludica (teatro, cinema, musica); in altre, il vissuto, all’interno del registro spettacolare, riesce a rintracciare un riflesso spirituale, una corrente di immagini che va ad alimentare il pensiero. Da questo punto di vista, nel momento in cui uno spettatore si affeziona a un quadro, un lettore passa il proprio tempo con un libro, si fa strada un’esperienza nuova, di natura speculare, che modifica radicalmente quella che poteva essere un’esperienza di mero intrattenimento: compiendola fino in fondo, il soggetto impara a conoscersi meglio, ad attivare dei pensieri propri, fino a cambiare completamente se stesso. Infine, a un altro livello ancora, l’arte, o perché esprime immagini perfette, formalmente depurate, o perché apre la porta ai possibili e ai sogni, prodiga una felicità inedita, un puro godimento dei sensi, una pienezza esistenziale. L’estetizzazione della vita significa  allora, per l’essere, aspirazione a vivere in una sfera decantata, purificata dell’esistenza, che prende corpo grazie  all’intensità e alla bellezza dell’opera d’arte.

L’arte consente dunque di apprezzare le qualità esistenziali e spirituali delle immagini artificialmente create dall’uomo, ideate e realizzate da un creatore. Esse riescono ad abbellire l’esistenza, a trasformarla o anche a rinnovarla.  L’immagine sostituisce quindi il reale, primitivo, piatto,  triviale. Il gusto delle immagini artistiche traduce un’esigenza di distacco dal mondo e un’aspirazione a un altro mondo, prefigurazione del mondo spirituale. Fermando il tempo, affrancandosi dalle forze entropiche dell’esistenza,  l’esperienza artistica si presenta in fondo come uno strumento per esorcizzare il declino e la morte, in una parola come un anti-destino. Come scrive Malraux: «La grande  opera d’arte non è affatto verità, come crede l’artista: è, e basta. È sorta dal nulla. Non è compimento, ma nascita. E’ vita in faccia alla vita, come le detta la sua natura. Ed è animata, in senso etimologico, dal flusso del tempo degli uomini, che la trasforma e se ne nutre».

Cosi, attraverso queste ulteriori prospezioni, che sono  più colpi di sonda che veri sopralluoghi, diventa chiaro che le immagini partecipano alle norme e ai valori che regolano nel bene e nel male, i nostri atti individuali e collettivi, collaborano alla legittimazione e al funzionamento delle istituzioni e consentono infine di attenuare la durezza della vita reale con rappresentazioni che l’arricchiscono in sacralità e bellezza. La vita, se non intende ridursi a mera sopravvivenza e intende invece realizzare il fine che è proprio di ogni uomo, ossia il pieno compimento della propria umanità, deve fare appello alle immagini: in esse troverà un «umanismo» di fondo che, adeguatamente coltivato con gli stimoli culturali appropriati, individuali e collettivi, attingerà i gradi più elevati della razionalità e della spiritualità.

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