Introduzione a L’estetica contemporanea di Ermanno Migliorini

In questo articolo troverete una riduzione del libro di Ermanno Migliorini

Introduzione all’estetica contemporanea

Il libro mi sembra ottimo, un concentrato di concetti molto interessanti ma, al momento, non risulta disponibile in commercio per questo mi sono permesso di inserire integralmente alcuni capitoli nell’articolo e di lasciare il titolo originale dell’opera. Buona lettura.

Introduzione a L’estetica contemporanea di Ermanno Migliorini

 Definizioni dell’arte

La prima, la più vetusta e gloriosa, è la definizione mimetica dell’arte, di origini antichissime, com’è noto, addirittura platonico-aristoteliche. Eppure ancora oggi essa è talora sorprendentemente avanzata per spiegare i complessi fatti dell’arte. Quante volte, visitando un museo, con l’occhio rivolto precipuamente all’arte del passato, il partito imitativo non è invocato per dar ragione di ciò che si vede? E comunque questo prestigioso e vecchio principio rimane sempre sullo sfondo delle nostre letture dell’arte di un tempo. Ma basterà ricordare anche recenti dispute, quella per esempio che intervenne anni addietro tra fautori dell’arte « rappresentativa » o figurativa e astrattismo, per constatare come la metafora mimetica dell’arte giunga a premere su tempi anche molto vicini.

 

 Un’altra definizione, anch’essa di fatto antichissima, è quella dell’arte come forma, cioè come unità nella molteplicità, come ordine e organizzazione delle parti, come, insomma, struttura. O perfezione, in senso valutativo, come immagine del cosmo, metafora dell’universo. Nell’opera d’arte, intesa come forma, tutti gli elementi concludono a un fine, si intersecano e si rimandano l’un l’altro, rappresentano nella loro rispondenza un’immagine che è il suo finale significato. Molto spesso, anche oggi, questa definizione classicistica dell’arte, dichiaratamente o no, è posta in atto per elaborare, giudicare, giustificare l’arte.

 L’ultima definizione che vogliamo prendere in esame è quella, oggi diventata un luogo comune, che si rifà all’espressione. E in questo senso noi non possiamo esimerci dal sottolineare come la definizione espressiva, linguistica, ecc. dell’arte sia del tutto egemone nella cultura contemporanea. Ciò che crea, è vero, sul piano della riflessione teorica, molti problemi  (in che cosa differisce e come si riconosce, per esempio, un’espressione artistica da un’espressione comune?), ma che avvalora l’immagine dell’artista che abbiamo innanzi proposto. Che l’artista esprime e si esprime: esprime, evidentemente, la sua « personalità », ma, anche ciò che è nascosto, è sconosciuto, è inconscio. Rivela la sua posizione eccezionale, la sua unicità, manifesta, attraverso questa metafora, quale sia il servizio che rende alla società e alla cultura, giustifica così la sua funzione. Non è più insomma il servo imitatore della natura, l’artefice di belle forme, ma il rivelatore di mondi ignoti, colui che dà espressione, che rivela con musiche, parole, forme, gesti, ciò che rimarrebbe, senza di lui, del tutto inespresso.

 

L’arte come ”valore” sociale.

Ma sussiste anche, nell’opinione media contemporanea, un’altra immagine dell’arte, quella in cui essa è intesa nella sua rilevanza sociale, non nel suo valore specifico. Si parla, in questo caso, di arte dell’infanzia, di arte degli alienati, di poesia dei bambini (non per i bambini), di educazione ”artistica”, di educare con l’arte. In questi casi è ovvio che quell’oggettività della cultura, che abbiamo cercato innanzi di delineare, è accolta nel suo significato banale, non culturale, come complesso di cose e di attività (magari formative e ricreative) che hanno in qualche modo attinenza con le cose e le attività delle arti del sistema (delle arti maggiori). E così qualsiasi pittura o disegno, di bambino o di schizofrenico o anche di  peintre du dimanche riceverà il nome di arte, qualsiasi filastrocca di bambino sarà poesia, qualsiasi raccontino sarà “prosa infantile”. Questo uso del termine arte tende ad estendersi sempre di più, è doveroso riconoscerlo, come si estende la pratica di essa. Anche in questo estendersi, che è un perdere di specificità e di ordine, dovremo riconoscere il senso di un percorso storico che sembra ineluttabile. Il volgarizzarsi dei contenuti e dei modi dell’arte non può che condurre all’impallidirsi del suo valore sui piani della cultura che un tempo le erano propri.

 “Noi siamo abituati – afferma Kristeller – ad un processo per cui le idee vengono formulate dapprima dai grandi e importanti teorici, poi piano piano si diffondono tra gli scrittori di secondo piano e infine diventano patrimonio comune del pubblico più vasto. Di questo tipo pare sia stato lo sviluppo dell’estetica da Kant ai nostri giorni, ma la storia di questo processo prima di Kant appare di genere completamente diverso. Le questioni e i principi fondamentali che stanno alla base dell’estetica moderna hanno avuto, a quanto pare, un’origine abbastanza lontana dalle tradizionali filosofie sistematiche e dagli scritti di autori importanti e originali: i loro esordi sono infatti poco appariscenti e si registrano presso autori di secondo piano, ora pressoché dimenticati benché, al loro tempo, importanti, e forse addirittura nelle discussioni e nelle conversazioni, rifuse poi nei loro scritti, di persone colte ma profane. Queste nozioni avevano la tendenza ad oscillare ed a progredire lentamente, ma solo dopo che si furono cristallizzate in uno schema che parve generalmente accettabile, esse furono accolte dai maggiori autori e dai filosofi sistematici. L’estetica di Baumgarten non era che un programma di massima e l’estetica di Kant l’elaborazione filosofica di un insieme di idee che avevano avuto già un secolo di sviluppi informali e non filosofici”.

Se guardiamo dunque in trasparenza la materia estetica, i luoghi comuni estetici, che siamo andati adunando in precedenza, e muniti di una pur minima strumentazione storica, non possiamo non notare l’artificiosità delle connessioni che tengono uniti i materiali più diversi: non solo, ma ciò che ci viene di solito presentato come il risultato di un’operazione teorica, anzi di una necessità teorica, spesso non è che l’accoglimento acritico (e talora persino patetico, trattandosi di filosofi eccelsi) dell’opinione più diffusa nella cultura comune. Anzi, sarà da notare, ancora una volta, come proprio l’intervento dei filosofi abbia contribuito a oggettivare una serie di abitudini, di usi, di per sé innocentemente congiunti, in un quadro ontologico che comprendeva spesso in sé lo spirito e il mondo. Cosi operando, la filosofia non faceva un buon servizio alle arti. Esse, che erano  vissute, salvo talora la poesia, nell’indistinzione della vita ordinaria, vengono sollevate dalla riflessione estetica moderna nei cieli tersi che sembrano loro spettare, sono investite di un valore così alto che lo stesso artista (un artigiano, in origine) se ne ritrae terrorizzato, sono legate tra di loro in un sistematico abbraccio mortale; i loro cultori sono elevati al rango, e alle responsabilità, di geni, gli oggetti che producono travalicano quel che si dice un lavoro ben fatto, fatto con abilità, per assumere significati cosmici in cui anche la divinità è coinvolta. Non solo, ma il lavoro dell’artista e soggetto a un giudizio di un’altra classe di persone, i critici, i letterati, gli uomini di gusto, che parlano un linguaggio diverso, quello della parola scritta, quello dell’immagine, della metafora che prevarica le opere e le fa diventare altro da quello che originariamente esse erano, così com’erano uscite dalle mani dell’artefice. L’arte abbandona il plurale, le varie arti, per diventare “una”, lasciandosi dietro, unico residuo, le cosiddette arti minori. Tutto questo era poi affidato ad una facoltà dell’animo, al suo illuminato e solido governo, e  a una definizione generale dell’artisticità, che doveva risultare poco meno che una prigione.

L’artista percorre un’ascesa continua che lo fa passare dalla bottega al servizio di una corte, per divenire poi tecnico, sovrintendente, scienziato per passare poi a quello di letterato e di nobile.

Un modo perché l’artista, pittore, scultore o musicista, potesse  elevare il proprio ruolo avvicinandosi a quello del letterato, fu quello di legarsi ad una corte, a una casa nobile, a un prelato di rango, alla curia romana. Oppure porsi al servizio di Principi o Repubbliche, in qualità di tecnico quale spesso egli era.

E’ così che lo stato sociale degli artisti può innalzarsi, ed essi possono spezzare il marchio che li accomuna alle corporazioni di manovali, degli scalpellini, per esempio, per essere considerati viri studiosi et scientifici elevandosi, pur nella pratica del lavoro manuale, alle generalizzazioni ed astrazioni delle arti del quadrivio.

Quelli che erano considerati un tempo alla stregua dei buffoni, dei valets de  chambre, i poeti e i musicisti (figurarsi i pittori), possono alla fine del secolo XVI considerarsi come intellettuali, trattare direttamente coi nobili, con i re e gli imperatoti, e, come Tiziano, vedere riconosciuto il proprio status sociale sulla scorta della propria genialità (nel 1533 gli fu concesso, addirittura, il diploma di nobiltà. L’arte del pittore non é più arte servile, ma arte nobile, di nobiltà dichiarata ed effettuale, e non solo per elezione culturale. I tempi sono maturi.

Arti maggiori e Arti minori

Le arti maggiori si sono separate dalle arti minori, sembra, solo in virtù di una cosiddetta superiorità, dovuta al desiderio di vedere come opere d’arte per eccellenza oggetti di una visibilità agibile da parte di un pubblico più vasto. Per questo l’affresco è l’arte guida del Medioevo (non la miniatura che è per pochi) e la pittura con le sue tavole d’altare tiene il passo, così come la statuaria e l’architettura.

 Da lontano a noi appare che attività tra arte, artigianato e tecnica (o arti meccaniche) abbiano agito in sinergia per la costituzione della nuova scienza. Questo processo ad un certo punto si interrompe e la cosiddetta “rivoluzione scientifica trova già l’arte separata dalla comunità e dalla società.

L’arte appare già deprivata dalla sua pretesa tecnica e scientifica esaltata al punto di estenuarsi in un manierismo che incide profondamente sulla sua stessa essenza, è giunta al rango della poesia e delle lettere con la parallela dipendenza dai grandi committenti.

Divisione del sistema scientifico

La grande divisione, quella teorica, consapevole, avviene in presenza del nuovo pensiero scientifico, al quale accade naturalmente di separare i valori (l’arte, la morale, la religione) dal mondo della scienza e dalla geometria.

L’arte si trova priva di una “verità” che non sia peculiare,parziale o retorica. Parte del lavoro di coloro che in quel tempo (soprattutto nel secolo XVII e agli inizi del successivo) si interessarono a queste cose, sarà dedicato proprio a ricercare e ad affermare una “verità poetica” che potesse fronteggiare il prevalere della nuova verità scientifica. Poiché la nuova situazione della cultura implicava di per sé la scomparsa o l’espulsione dal pensiero scientifico di tutti i ragionamenti fondati sul valore, sulla perfezione, sull’armonia, sul significato e sul fine (dunque su ciò che poi è stato detto arte, e su ciò che era la morale) poiché questi concetti, da adesso in poi semplicemente soggettivi, non trovano posto nella nuova ontologia. Soltanto le cause efficienti e materiali, come criteri di spiegazione, hanno luogo nella nuova scienza unitaria, mentre vengono respinte le cause formali o finali.

La poesia e la pittura sono accomunate sotto il segno della fantasia. Ecco il primo indice di una estetica sistematica e filosofica. Da qui comincia consapevolmente il cammino, lungo, della separazione teorica della scienza dalle arti.

La scienza si costituisce nell’isolamento ma isolando per ciò stesso altri ambiti.

Descartes separò di fatto la scienza dalla morale e affermava per la valutazione delle arti il criterio di un gusto personale, soggettivo, privo di ragioni, di un gusto che egli paragonava a quello dei cibi, respingendo così in un territorio confuso tutto un materiale, dalla musica alla poesia, che fino ad allora aveva fatto parte della struttura della cultura.

Gli oggetti e la follia

Gli oggetti artistici vanno ridefiniti, non sono più coinvolti nella comune cultura e sembrano distaccati da essa. Esistono dipinti, sculture musiche la cui funzione deve essere rimediata, ricevere una nuova motivazione e fondazione. Il modo che appare più facile e spontaneo, è il riferimento ai modelli classici, la costituzione di regole, la formazione quindi di una letteratura pragmatica che in qualche modo ponga ordine nel disordine, quale era improvvisamente apparso. Le oggettività artistiche, infine sono coordinate, commisurate, costituite sulla base di innumerevoli poetiche, di precettistiche, di principi retorici. Oppure da una lettura critica che, caso per caso, prescindendo da motivazioni generali, prende in esame una determinata opera, o un “genere”, cercando di dare ordine e consistenza culturale a ciò che sembrava ormai privo di ragione, e forse, di esistenza.

L’arte giunta alle sue massime manifestazioni con Raffaello, quasi per un processo spontaneo si dispone a riflettere su di sé, non è più regina, non insegna più nulla intorno all’essere del mondo, ma diviene “humile et volgare”. Gli artisti infatti non si rifanno più al modello naturale, non imitano più e riproducono la natura con una intenzione di conoscenza, ma ne abbandonano lo studio, si analizzano e analizzano i propri mezzi, viziano “l’arte con la maniera” con una “fantastica idea, appoggiata alla pratica e all’imitazione”.

Questo era quanto restava all’arte: non più la luce della scienza e della conoscenza ma l’inconsapevole espressione delle proprie pulsioni e delle proprie nevrosi.

I manieristi precorsero il dramma dell’arte: anche di quella contemporanea. Anzi per quanto riguarda l’estetica, proprio a loro si deve una delle motivazioni più profonde del suo sorgere. O del sorgere delle poetiche e della ragionevole riflessione pragmatica del rinnovato classicismo, dai Carracci al Poussin.

Al Seicento classicista e barocco manca una filosofia dell’arte: ed è più che ovvio, come d’altronde manca una filosofia del bello, che invece aveva interessato, e molto, i due secoli precedenti.

Il mondo occidentale si trova insomma pieno di oggetti strani, che non servono più, di artisti posseduti da una mania divina: la scelta non sarà la distruzione dei reperti, ma piuttosto, in generale, la loro classificazione e la loro rivalutazione.

Il sistema delle arti: gli inizi

La riflessione pragmatica e critica del Seicento aveva preparato un terreno assai favorevole al sorgere dell’estetica come scienza. Un grande numero di nozioni teoriche e poetico-critiche erano state radunate, sia pure confusamente, e attendevano che vi si mettesse ordine. Le arti riconosciute come maggiori sono assunte come oggettività, come esistenti, di cui, è vero, non si cerca ancora un’origine unitaria, una legge generale, ma di cui si avverte oscuramente l’emergere di un’affinità, anche soltanto in vista della loro efficacia, dei loro effetti, dei sentimenti che erano capaci di generare nell’animo umano. Sorgono le poetiche dell’emozione, proprie dell’età barocca. 

Si comincia a parlare di gusto come di una facoltà destinata all’apprezzamento dell’arte e i termini sono derivati dalla metafora della degustazione dei cibi.

Si celebra il concetto poetico proprio come mezzo per ottenere una immediata rispondenza nel fruitore, per colpirlo, per meravigliarlo, per suscitare emozioni.

Nei primi decenni del secolo XVIII, tuttavia, si prende coscienza di quanto sta avvenendo, e si ha una subitanea reazione, reazione da cui nascerà, appunto, l’estetica. Si comincia a portare l’attenzione sulla bellezza, cioè su una nozione antica che si sentiva “obiettiva” soprattutto nei confronti della oscillante e pericolosa nozione di gusto. Il gusto è soggettivo (così come è il gusto dei cibi), mentre la bellezza possiede, così come assicurava la sapienza antica platonica e quella rinascimentale (sempre platonica), una sua struttura, una finalità, una sua proporzione, e quindi una sua oggettività e una sua verità.

E proprio nel contrasto con la nuova fisica causalistica, la nozione (finalistica) di bellezza trova le ragioni della sua nuova esistenza, della sua nuova funzione. Al mondo delle quantità, della sequenza di cause e di effetti, doveva essere opposto un mondo di valori, in cui il processo fosse invertito, un mondo che fosse un tutto preordinato e disegnato dall’Autore delle cose. Un mondo appunto di bellezza.

J.-P. de Crousaz (filosofo svizzero, 1714): Il bello è unità nella varietà, è avvertito immediatamente dal sentimento ma, in seguito, è approvato dalla ragione.

Crousaz, però va più avanti. E’ evidente che , nella sua dottrina, il mondo non può essere che bellezza creata da Dio, unità nella varietà; ma non solo la natura è bella, anche certe attività umane possono esserlo. Il bello quindi investirà la virtù (i valori della morale debbono essere belli), la religione (ovviamente), ma anche la matematica e le scienze (anche le figure geometriche e le dimostrazioni hanno una loro bellezza), e poi, finalmente le arti, specialmente la musica, l’architettura e l’eloquenza.

Hutcheson (filosofo inglese) prospetta, per meglio costituire i suoi oggetti, una speciale facoltà, un senso superiore e specifico, volto a cogliere appunto l’idea di bellezza. Ci troviamo di fronte, dunque, ad un primo embrione di estetica in senso moderno: alcune arti associate sotto un principio (la mimesi aristotelica), seppure unite alla scienza dei “teoremi”, che pure imitano la natura, e connesse con un potere speciale, che è proprio il senso della bellezza, quella che sarà in seguito la speciale “facoltà” delle arti.

Du Bos (francese che scriveva nel 1719) cerca di mostrare come le arti furono inventate dagli uomini in quanto rimedio alla noia che comportava un’immobilità dolorosa dell’animo privo di passioni.

Il passo decisivo non fu fatto da un filosofo ma da un letterato, Charles Batteux, che fu il primo a proporre un sistema delle belle arti ben definito, in un trattato dedicato esclusivamente a questo argomento.

Batteux codifica decisamente il sistema delle belle arti che hanno tutte per fine il piacere. Tutte le arti sono sottoposte ad un unico principio (la mimesi aristotelica) che egli veniva chiamando “imitazione della bella natura”, rievocando così una solida e prestigiosa definizione dell’arte.

Batteux riconosce dunque una specifica facoltà dell’animo che soprintende alle arti, quella di genio/gusto (il genio non può fare a meno del gusto, e il gusto è la facoltà di conoscere la bella imitazione della bella natura), e come abbiamo visto, il sistema delle belle arti.

Rimaneva il problema di connettere la facoltà al sistema. Per far questo Batteux abbandonò la tesi centrale della definizione mimetica per adottarne un’altra più funzionale, introducendo un nuovo principio di una unificazione tra le arti, anzi una nuova definizione dell’arte, in maniera però non clamorosa e quasi criptica, nella terza parte della sua opera: l’identificazione dell’arte – per la prima volta, e con quali conseguenze, nella storia dell’estetica – con l’espressione e la comunicazione, con l’emissione e la ricezione di segni, con il significato insomma, con la donazione e il riconoscimento di un senso.

Ciò rendeva facile a Batteux quello che diventerà l’esercizio più caro ai filofofi che verranno: la deduzione, dalla definizione dell’arte, del sistema delle belle arti.

 

Arte come linguaggio, espressione, segno, senso

Nel testo Batteuxiano, il termine espressione, che fino a questo momento era stato usato in senso oggettivo (come, per esempio, esprimere la “bellezza della natura” ), acquista un senso anche soggettivo, nel senso di espressione delle idee e dei sentimenti del soggetto esprimente, parlante, significante.

“Gli uomini – scriveva Batteux – hanno tre mezzi per esprimere le loro idee e i loro sentimenti: la parola, il tono della voce, il gesto”. Ora, la parola, il tono della voce, il gesto hanno dei gradi. “Nel primo esprimono la natura semplice, per il solo bisogno. È il caso della conversazione. Nel secondo grado, è la natura educata mediante l’arte, al fine di aggiungere il piacere all’utilità: si scelgono con qualche cura, sebbene con riguardo e modestia, le parole, i toni, i gesti più propri e più profondi: e questa è l’orazione o il discorso “alto”. Nel terzo grado si ha in vista solo il piacere, e queste tre espressioni vi si presentano non soltanto con tutte le loro grazie e tutta la loro forza naturale, ma anche con tutta la perfezione che l’arte può aggiungervi, e cioè la misura, il movimento, la modulazione e l’armonia: è il caso della versificazione, della musica e della danza che sono la più grande perfezione possibile delle parole, dei toni della voce,dei gesti”.

Tutte le arti sono semantiche: il modello espressivo-cominicativo della poesia lirica distrugge la metafora mimetica. Entro questo sistema si muove, ancora oggi, gran parte dell’estetica. Solo che oggi queste nozioni, che sono nozioni storiche, non vengono assunte come tali ma si adottano come “specifici” dell’estetica, come assoluti, nozioni esistenti e indubitabili. Il rendersi conto della loro storicità, invece (l’essere esse sorte per determinate ragioni e per risolvere determinati problemi), rende l’estetica e le vicende delle arti, come auto trasparenti, le pone comunque su di un piano di ragionevolezza in cui il presente viene intensamente illuminato da un passato che si rivela nelle sue antiche determinazioni, nei sentieri nascosti che astutamente predisponeva.

Questa nuova definizione delle arti, collegata alla facoltà genio/gusto gli serviva per dedurne il sistema. Dal partito espressivo, comunicativo, segnico, accolto per la definizione generale, risulterà agevole una derivazione-deduzione delle singole arti. Nella comunicazione ordinaria gli uomini hanno a loro disposizione la parola, il tono della voce, il gesto.

Dalla parola – intesa come mezzo di comunicazione e di espressione – deriverà la poesia; dal tono della voce, la musica; dal gesto, la danza.

Meno determinata, ma in qualche modo inserita nel sistema espressivo, la pittura (più legata al vecchio partito imitativo): l’immaginazione del pittore “si esprime” tuttavia in primo luogo col disegno, poi col chiaroscuro, poi col colore.

Una facoltà dell’animo umano, una definizione dell’arte (talora quella espressiva, oggi la prevalente) e poi la deduzione di un sistema.

La connessione fra i vari nodi della struttura è spesso debole, vacillante da un punto di vista teorico. Ma tant’è; lestetica moderna (e contemporanea) si muove per queste strade obbligate.

Batteux e Kant

Kant , in un recesso della Critica del giudizio, trovandosi di fronte all’occorrenza di offrire il principio di una divisione delle arti, non trovò di meglio che riferirsi alle indicazioni batteuxiane, con prudenza e circospezione però, parlando di un esperimento fatto “a titolo di prova”.

Kant non prende neppure in considerazione la mimesi: e quindi l’espressione, dopo qualche oscillazione, diventa proprio il battexiano comunicare, da parte degli uomini, dei concetti e delle sensazioni.

Dunque Kant, nel paragrafo 51 della terza Critica, nell’apprestarsi a condurre la sua divisione delle belle arti, propone una facoltà – quella del giudizio, preposta alla bellezza, alle arti, alle finalità -, una definizione comunicativa delle arti nonché una divisione delle arti, disponendole ovviamente in sistema, in maniera assai più efficace di quella teorizzata da Batteux.

“Se dunque – dice Kant – vogliamo fare una divisione delle balle arti non possiamo scegliere, almeno a titolo di prova, nessun principio più comodo di quello dell’analogia dell’arte con quella specie di espressione di cui si servono gli uomini nel parlare per comunicarsi, quanto perfettamente è possibile, non soltanto i loro concetti, ma anche le sensazioni. Questa specie di espressione consiste nella parola, nel gesto, nel tono (articolazione, gesticolazione e modulazione)… . Sicché non vi sono che tre specie di arti belle: L’arte della parola, l’arte figurativa e l’arte del gioco delle sensazioni… 1) le arti della parola sono l’eloquenza e la poesia…  2) le arti figurative o quelle che esprimono delle idee per mezzo dell’intuizione sensibile [la plastica con la sottospecie dell’architettura e della pittura, e con la sottospecie dell’arte dei giardini]…  3) l’arte del gioco delle sensazioni [e cioè] musica e colorito”.

Il sistema, e la sua deduzione, erano così severamente costituiti. Le arti belle erano così instaurate.

Il valore dell’arte

Ma a questo punto accade che nel decennio successivo alla sistemazione della Critica del giudizio, l’arte (anzi l’Arte) subisce fortunose vicende. Legata sin qui a origini fabrili e artigiane, comunque all’antico “fare”, essa, sollevata da Kant nell’ambito di una facoltà dell’animo, tende ad assumere un valore grandissimo, infinito, acquista una luce suprema in cui si offuscano le “certezze” recentemente raggiunte.

E’ il tempo in cui con Schelling, l’arte diviene il solo e vero ed eterno organo della filosofia, organo per afferrare l’Assoluto, alla luce del quale ogni distinzione sistematica scompare. Una luce filosoficamente splendida cade sull’arte, per motivazioni evidentemente teoretiche, ed essa è posta in un grado di supremazia estrema rispetto ad altri valori. Mai, nella storia dell’occidente, l’Arte ha raggiunto tale traguardo, tale prestigio, tale funzione.

Se essa è amata e venerata oltre ogni limite, innalzata come valore accanto al valore della conoscenza, della morale, della religione, ciò è dovuto, oltre che all’opera precorritrice di Kant, anche alla posizione di filosofi come Schelling che, ignorando l’ artistico, il manufatto, l’opera, l’artista artigiano, accentrarono la loro attenzione teorica su una ipotizzabile unica “opera d’arte assoluta” con cui l’artista rappresenta e ripercuote “attraverso molteplici specchi tutta una vita infinita”: l’arte aveva così superato se stessa, i problemi del suo sistema e dei suoi oggetti. Un po’ di questa opinione rimane anche fra noi, come del resto la sopravvalutazione del “genio” dell’artista, inteso come personalità superiore, fatidica, come vate e rappresentante privilegiato dell’umanità.

Ma la sanzione definitiva della struttura storica, che si è venuta così formando, si può riconoscere nel pensiero di Hegel. Tutte le precedenti determinazioni sono in qualche modo assunte e rivissute nelle diverse occasioni in cui Hegel si interessò dell’arte.

L’arte per Hegel è una forma del sapere che “ha il suo futuro nella religione”, e successivamente nella filosofia, in cui si realizza l’unità dell’arte e della religione, nel concetto della filosofia come Idea che pensa se stessa, verità che sa: “Idea eterna in sé e per sé” che “si produce e gode se stessa eternamente come spirito assoluto”. Non siamo, come si vede ai livelli schellinghiani: ma l’Arte ha assunto, nella cultura, una sua altissima collocazione, la forma di un valore che è un “dirompersi in un’opera di esistenza esterna e comune, nel soggetto che produce l’opera e in quello che la contempla e l’adora”.

“L’opera d’arte – prosegue Hegel – è l’espressione di Dio”, mentre l’artista “è il padrone del Dio”.

Come prima forma dello spirito assoluto l’arte muore (ha il suo futuro, come si è visto) nella religione, il sapere dell’arte trapassa nel sapere della rivelazione (appunto) la quale trapassa nella filosofia, unità di arte e di religione che si riconosce come pensiero consapevole di sé.

L’Arte è , per Hegel, un creare in generale, in immediatezza e naturalità, così che il genio e il talento devono essere innati.

Hegel propone, sugli schemi settecenteschi, il suo “sistema delle singole arti”. Il principio da cui parte è quello, dunque, della forma spirituale dell’arte: “ il contenuto di questo mondo è il bello, ed il vero bello, come abbiamo visto, la spiritualità formata, l’ideale, e più precisamente lo spirito assoluto, la verità stessa”. Questo è il centro del mondo artistico, cui i diversi generi si avvicinano, separandosi da esso gradualmente nelle loro capacità tecniche, nell’essenza della loro costituzione. Cosicché la prima arte da considerare (la più lontana) è l’Architettura, il cui compito consiste nell’elaborazione della natura inorganica, della materia, del materiale insomma, sì che questi, “come mondo esterno conforme all’arte”, divenga affine allo spirito.

La Scultura poi, “presenta nel tempio il Dio stesso”, in quanto il lampo dell’individualità piomba sulla massa inerte, la penetra: e la forma infinita dello spirito (non più la semplice simmetria che Hegel pensava propria dell’architettura) dà forma alla corporeità.

La Pittura poi si serve della visibilità come tale, arriva a determinarsi come colore, visibilità in sé soggettivizzata e idealmente posta così che “tutto ciò che nel petto umano può trovar posto coma sentimento,rappresentazione, fine… tutto questo molteplice può costituire il variopinto contenuto della natura”.

La Musica, sebbene il suo materiale sia ancora sensibile, giunge ad una soggettività e particolarizzazione ancora più profonda.

La Poesia è la forma d’arte più spirituale: “la sua peculiarità caratteristica risiede nella forza con cui sottomette allo spirito ed alle sue rappresentazioni l’elemento sensibile, da cui già la musica e la pittura hanno incominciato a liberare l’arte”.

Questo, riassume Hegel, è il sistema delle arti: derivate e costituite in sistema a seconda della loro maggiore o minore approssimazione allo “spirituale”: l’arte esteriore dell’architettura, quella oggettiva della scultura, quella soggettiva della pittura , musica e poesia.

Siamo lontani dalle divisioni batteuxiane e kantiane ma il principio della divisione, benché attuato con mezzi diversissimi, tuttavia rimane tenace.

La sottrazione dell’ artistico

All’interno della dottrina hegeliana, come in quella di Schelling, abbiamo la vanificazione  del concreto artistico, valutato come tale, e il tema della fine dell’arte che oggi è così volentieri ripreso.

La questione dell’ artistico, risolta da Hegel in maniera peculiare e profetica, ritornerà con accenti simili nell’arte e nel pensiero contemporanei. Se l’arte classica possedeva un suo reale, un oggetto valutato artisticamente, dice pressappoco Hegel, esso è superfluo per quanto riguarda l’arte romantica (l’arte del suo tempo): nell’arte classica lo spirito dominava l’apparenza empirica, la compenetrava completamente, perché solo in esso poteva acquistare la sua intera realtà. “ Ma ora l’interno è indifferente verso il modo di rappresentazione del mondo immediato, giacché l’immediatezza è indegna della beatitudine dell’anima in sé”. L’arte, insomma, è trapassata nella religione-filosofia, e non ha più bisogno dell’apparenza empirica per manifestare “lo spirituale”.

Proprio per questo, l’arte perde di interesse e di dignità, diventa materia esteriore, indifferente e di poco conto, e permette a qualsiasi cosa, persino ai fiori, agli alberi e ai comuni utensili domestici di essere accidentalmente rappresentati.

Con Hegel si era ormai costituita un’ oggettività della cultura: il sistema delle arti.

La poesia, la musica, la pittura, la scultura, l’architettura rappresentano i temi di esercitazione – ancora – della critica e dell’estetica. Gli est etologi contemporanei si sono mossi, molto spesso, all’interno di quelle antiche griglie. L’arte contemporanea, no. Le ha dileggiate e distrutte. Nella loro completa impotenza di qualsiasi reazione.

 CROCE

Il Croce nella teoria delle quattro forme dello spirito esposta nel primo dei quattro volumi della Filosofia dello Spirito, e cioè l’Estetica, distingue un momento Teoretico (conoscitivo) e un momento Pratico (attivo).

 All’interno del momento teoretico distingue la conoscenza dell’individuale, cioè l’arte, dalla conoscenza universale, la filosofia.

All’interno del momento pratico, l’atto del volere dell’individuale o dell’utile, che è l’economia, e l’atto del volere dell’universale o del bene, che è la morale.

I quattro concetti fondamentali ( bello, vero, utile, buono) vengono considerati più alti degli altri  concetti perché forme, ossia modi di operare universali e costanti nel proprio sviluppo.

La caratteristica della posizione crociana sta nell’intendere lo sviluppo dello spirito come un continuo passaggio dall’una all’altra delle quattro forme per poi ricominciare nuovamente dalla più semplice di esse, avendo i risultati di tutte le precedenti come proprio contenuto.

L’arte costituisce il primo momento nello sviluppo dello spirito. Essa è intuizione ed espressione insieme, di un qualsiasi oggetto. Questo concetto, sviluppato rigorosamente, porta all’identificazione dell’arte con qualsiasi forma di espressione, a cominciare dal linguaggio.

Croce non teme, almeno in un primo tempo, il paradosso insito nell’affermazione che ogni conoscenza intuitiva è arte; si limita soltanto a precisare che le cosiddette opere d’arte sono semplicemente  espressioni più complesse e difficili delle altre, ma non distinguibili per una differenza specifica .

Il giudizio estetico non dovrà mirare, come spesso era accaduto nel positivismo, ad una ricostruzione più o meno minuziosa della genesi dell’opera nel suo contesto sociale o dei suoi legami con la psicologia e la personalità dell’autore, ma avrà invece un suo valore assoluto , (ma) non perché si conformi ad un concetto o ad un modello che l’artista attuerebbe nella sua opera e di cui il critico si varrebbe poi per giudicarla. Al contrario, ciò che garantisce la validità assoluta del giudizio estetico è la completa identità tra il Gusto (l’attività che giudica l’opera d’arte)  e il Genio (l’attività che la produce).

Successivamente il Croce ha dovuto articolare la sua posizione distinguendo le diverse forme di espressione.

L’espressione vera è la  Poesia; accanto ad essa il Croce ammette forme di espressione che corrispondono ad esigenze non strettamente artistiche come la Letteratura.

La conoscenza ha due forme: Intuitiva o Logica; per la Fantasia o per l’Intelletto; conoscenza dell’individuale o dell’universale.

La conoscenza Intuitiva è la conoscenza espressiva: Intuire è esprimere. “ Come possiamo intuire davvero una figura geometrica se non ne abbiamo così netta l’immagine da essere in grado di tracciarla immediatamente sulla carta o sulla lavagna?”.

Il valore dell’opera d’arte è dato dal fatto che alcune espressioni e intuizioni sono raggiunte più di rado di ciò che avviene nell’esperienza comune.

I limiti tra le espressioni comuni e quelle non comuni sono empirici, è impossibile definirli.

L’arte è presente nella vita dello spirito come riconoscimento di una quantità di intuizione-espressione maggiore della solita ( e non di qualità essendo la qualità legata alla scienza Filosofica), così che il Genio è una eccezione, ma non poi tanto.

L’aver fatto di una differenza quantitativa una differenza qualitativa ha dato luogo al culto e alla superstizione del genio, “dimenticando che la genialità è non già qualcosa discesa dal cielo, ma l’umanità stessa.”

Ciò porta ad una rassicurazione personale e sociale attraverso fini culturali.

 Queste premesse dell’estetica crociana portano a conseguenze di questo tipo:

L’arte non è imitazione della natura (se la fotografia ha qualcosa di artistico è perché trasmette almeno in parte l’intuizione del fotografo.)

Vengono esclusi tutti i caratteri di eccezionalità delle arti perché la facoltà di intuizione-espressione è di tutti.

Se ne rileva quindi l’inesistenza o la irrilevanza dell’opera d’arte.

Se l’intuizione e l’espressione sono fondamentali e primarie (di cui tutti partecipiamo anche semplicemente emettendo un’esclamazione) tutto, in un certo senso, finisce qui. Il resto è questione di quantità, e la quantità può essere estrinsecata in o rimanere come quantità interiore.

L’intuizione è espressione, ma l’espressione può anche non essere espressa materialmente, ridotta in mezzi di comunicazione; può restare soltanto una “elaborazione espressiva delle impressioni”.

“Quando abbiamo conquistato la parola interna, concepita netta e viva una figura o una statua, trovato un motivo musicale, l’espressione è nota ed è completa; non ha bisogno di altro.”

L’opera d’arte estetica, insomma, è sempre interna e quella che si chiama esterna non è più opera d’arte.

Ciò significa che i quadri o i libri non sono più opere d’arte. L’opera d’arte è precedente.

L’opera d’arte è esclusivamente spirituale perché è il raggiungimento interiore dell’intuizione-espressione.

Le azioni che poi si possono fare per concretizzare questo raggiungimento (ovvero scolpire, dipingere, scrivere, suonare ecc…) sono solo degli aiuti alla memoria, ossia fisici, ma non sono più l’opera d’arte che è solo interiore.

L’ opera d’arte dunque non esiste, quindi il sistema di classificazione estetica delle arti non esiste.

La materialità dell’opera d’arte è un impaccio per l’idealità del concetto, essa decade, mentre l’intuizione e l’espressione sono sempre fresche e rinnovate.

CONCLUSIONE:

– Tutti gli uomini sono artisti e tutti, in quanto possono fruire col loro gusto dell’opera d’arte, data l’identità di genio e gusto, possono essere artisti.

– L’opera d’arte è ridotta ad aiuto della memoria, quindi si ha la negazione dell’ per cui l’estetica era sorta.

– Negazione del sistema delle arti.

Quindi l’estetica che ne esce nega i suoi elementi e le sue strutture.

 Per il Croce:

– ogni contenuto deve avere una forma.

– l’arte è creazione.

Se ogni contenuto è sentito con una sua forma come può dirsi che l’artista poi crea? Creare significa prendere un contenuto e farlo altro da quello che esso è ; se lo si esprime così come si presenta spontaneamente alla coscienza esso non ha il carattere di una creazione.

 

Dessoir: la scienza dell’arte

Il lavoro più noto di Dessoir è appena posteriore nella pubblicazione all’opera del Croce.

Tenendo certo presenti i diversi orientamenti degli studi estetici che avevano arricchito l’ultimo ottocento, dagli studi di estetica speculativa a quelli di psicologia dell’arte, Dessoir tenta di costituire una “scienza dell’arte”.

I tempi erano maturi perché la separazione si compisse, e si uscisse dall’equivoco consustanziale, d’altronde, con il sorgere della stessa estetica, quando nei trattati dedicati, per esempio, alla bellezza si dava posto anche alle arti, e viceversa. Dessoir invece afferma che devono rigorosamente essere tenute distinte, dal punto di vista  dell’analisi scientifica, due “disposizioni dell’animo” (è evidente il riferimento alla vecchia facoltà), con le sue modificazioni nei confronti del bello, l’una ( dell’estetica); rivolta verso l’arte e i suoi generi, l’altra (oggetto della “scienza dell’arte”).

L’Estetica diventa così una rassegna di argomenti tradizionali, con tentativi evidenti di ordinarli secondo una riflessa meditazione metodologica: il risultato effettivo è deludente.

L’ insomma – come compromesso tra soggettivismo e oggettivismo – possiede delle caratteristiche disposizionali che si rivelano come necessarie per l’osservatore. Appare dunque nell’oggetto una “omogeneità necessaria di ciò che è di principio separabile, e che ne costituisce l’esteticità, non solo, ma che dà slancio all’attività psichica”.

L’ estetico è presentato come “contenuto nella realtà”, che è come dire la bellezza degli antichi, cioè non è definito, è abbandonato alla genericità formale-reale della “omogeneità necessaria”, o della “necessità intuitiva”.

Una operazione condotta sulla traccia della contemporanea fenomenologia che non fa che ripercorrere e recuperare gli elementi del sistema dell’estetica. Dessoir ha insomma codificato, in questa parte della sua opera, ciò che hai suoi tempi e nel suo ambiente , era apprezzato, valutato mediante categorie che per tradizione, appartenevano all’estetica.

La seconda parte della riflessione di Dessoir concerne la “scienza dell’arte” (noi diremmo la regione dell’artisticità). La creazione  è, come aveva già affermato Hartmann, una disposizione, una condizione dell’animo, produttiva, fantastica; dunque ancora un’allusione alla vecchia facoltà. Per lo più –dice Dessoir- questa disposizione coglie di sorpresa l’artista, senza che egli l’abbia cercata: in ogni ora, in ogni luogo essa può sopravvenire.

Ma , nonostante questo l’arte non è soltanto quell’attività riservata a persone privilegiate (il genio), come ci si aspetterebbe. La specificità che prelude alla prossima sistematizzazione delle arti (arti del genio), intese come valori dalla cultura, è posta da parte per trattare enciclopedicamente  dell’arte dei bambini, dell’arte dei popoli primitivi, delle origini dell’arte, che sono viste come derivate da un unico ceppo, un albero genealogico alla cui origine può essere collocata la danza.

Infine viene presentato il sistema delle arti. La deduzione del “sistema” è forzatamente artificiosa, con distinzioni empiriche, invocate per produrre una ambigua separazione, come quella tra le arti dello spazio e del tempo, dell’imitazione e delle libere associazioni.

In conclusione, con imprestiti dalla psicologia del suo tempo (e principalmente da Wundt), e con un accattivante buon senso filosofico, tenta una ristrutturazione del materiale estetico-artistico a sua disposizione. A differenza di Croce, che è portato a unificare le nozioni più disparate (a declassare, per esempio, il bello naturale a qualcosa d’interpretabile come valore artistico), Dessoir moltiplica le distinzioni.

Attento ai fatti dell’arte contemporanea, avvertì l’importanza dell’espressionismo, rimanendone tuttavia turbato, lamentandone l’evidente irrazionalismo (eppure l’espressionismo era ancora figurazione, e poteva inserirsi bene nei suoi schemi), segno di un “tempo malato”. Nonostante la sua ostinata sistemazione della regione dell’artisticità, egli vide dunque che qualcosa, nell’universo che aveva tentato di descrivere, si andava incrinando.

Anche in Dessoir troviamo quindi un processo preciso, svolto sulla nozione comune dell’estetica del suo tempo e sostanzialmente contrario a una riconsiderazione del problema. La duplice definizione, di estetica e di arte (che ricorda la dicotomia settecentesca di gusto e di genio), una definizione dell’arte come creazione (il poièin dei greci), una deduzione psicologica delle arti, l’imposizione del sistema, la descrizione della classe degli oggetti di valore artistico. In più una considerazione dell’arte in generale, da un punto di vista antropologico (“l’arte dei bambini e dei popoli primitivi”), e una particolarissima analisi della psicologia dell’artista.

Wölfflin: L’arte come forma

Wölfflin è soprattutto storico dell’arte, ma sensibilissimo, com’era uso in quegli anni in Germania, ai problemi dell’estetica. Egli assunse una posizione netta a favore del formalismo, della definizione insomma dell’arte come forma.

L’arte per Wölfflin è L’Arte, quella della tradizione, anche se non soltanto quella prodotta da personalità privilegiate. Le sue analisi riguardano le opere di grandi artisti, come quelle anonime provenienti dalle remote antichità. Non gli interessano particolarmente la “volontà espressiva” di un autore, la sua “personalità di artista” (in proposito si è parlato di “storia dell’arte senza nomi”), nozioni con cui anzi entra in contenuta polemica. Per Wölfflin l’arte c’è, esiste, ed è quella dicui si parla nei trattati specifici e che è contenuta, in parte nei musei. E’ questo che importa, l’ del suo discorso. Come “esistono”, accanto alle arti figurative e plastiche da lui particolarmente considerate, la poesia, la musica, sottoposte d’altronde sistematicamente a leggi simili a quelle che regolano le prime.

Ma che cos’è la forma per Wölfflin? E’ il carattere specifico di un’arte che procede appunto attraverso la rappresentazione visiva: l’arte figurativa possiede, come arte dell’occhio, le proprie premesse e le proprie leggi, che sono relativamente autonome, non insomma strettamente connesse con i mutamenti della storia, con l’atmosfera spirituale (come all’incirca voleva il positivismo).

Wölfflin si muove qui sulle orme di K. Fiedler, che interpretando  e adattando in qualche modo il pensiero di Kant alle sue necessità teoriche, aveva gettato le basi della dottrina della “pura visibilità”, una facoltà della visione, concepita, appunto a priori (come la “ragion pura” di Kant): la natura per Fiedler, non è che un variopinto mondo di percezioni che emergono sullo schermo del “nostro occhio corporeo” o in quello interiore del ricordo. La natura è dunque soltanto il “regno del visibile”, e il mondo dei fenomeni visivi dipende unicamente dall’attività dell’occhio e dai processi di percezione e di rappresentazione che ad essa sono legati. Evitando le tensioni verso un certo privilegia mento dell’espressione “artistica”, singolare in Fiedler, Wölfflin accoglie approssimativamente questi principi. E li estende anche alle altre arti, costituendone implicitamente il sistema, alla poesia come alla musica. Quando delinea le leggi del passaggio dal Rinascimento al Barocco, dopo averle applicate all’architettura, alla scultura, alla pittura, ne propone subito una parallela applicazione alla poesia (Ariosto e Tasso) e alla musica (Palestrina).

La forma si evolve dunque secondo una sua storia interna e autonoma: il Barocco crea nella sua fase più tarda, per esempio, combinazioni di spazi sempre più strane e complesse, che, tuttavia, non avrebbero potuto realizzarsi senza essere passate per determinati stadi anteriori. “C’è nell’arte uno svolgimento interno della forma”: per quanto siano meritevoli gli sforzi di porre in relazione – prosegue Wölfflin –il mutare della forma con le mutevoli condizioni dell’ambiente e di penetrare il carattere umano dell’artista e della struttura spirituale e sociale dell’epoca, tuttavia l’arte, o meglio la fantasia figurativa, possiede “una vita ed uno svolgimento suoi propri”, tali che avvengono “più in profondità”, condizionando “un atteggiamento fondamentalmente diverso di fronte al mondo della visibilità. Si vede altrimenti, si vedono altre cose”.

La riflessione non mira più ad indagare sulle strutture dell’artisticità, a problematizzarle, ma si volge a definire  con certezza dogmatica le leggi della facoltà della visione, non curandosi di giustificare filosoficamente questa fondamentale pretesa. Ciò che si tenta di fare è semplicemente di porre ordine fra gli “oggetti” d’arte, così come essi sono riconosciuti nei più comuni usi culturali. La preminenza è assegnata qui all’oggetto. L’arte vale in quanto forma. L’artista è considerato un mero strumento, un “portatore” delle forme e della loro variabilità, “un anello della catena”.

Wölfflin indica anche teoricamente le leggi di evoluzione delle forme. Esse sono cinque, e affondano le loro radici nello spessore del sistema delle arti:

1) Lo svolgimento dal lineare al pittorico; 2) il passaggio dalla visione di superficie alla visione della profondità; 3) quello dalla forma chiusa alla forma aperta; 4) dalla molteplicità alla unità; 5) dalla chiarezza assoluta alla chiarezza relativa degli oggetti.

Cinque aspetti di un fenomeno simile che ripercorrono simbolicamente il passaggio dal Rinascimento al Barocco.

Richards: arte e organizzazione percettiva

Iniziatore probabile e lontano dell’analisi filosofica del linguaggio, che molti anni più tardi conoscerà grande fortuna, le sue opinioni gravano su gran parte della cultura americana, anche molto posteriore, nello spirito del pragmatismo e del naturalismo.

Anche per Richards, ovviamente, l’arte esiste è quella che è comunemente accolta nei curricula scolastici, quella insomma che si insegna nei Colleges essere arte. I suoi esempi sono accademici e banali. Dal suo punto di vista, come dal punto di vista generico della cultura americana, Dante per esempio è maltrattato, perché oscuro; anche se è probabile che lo salvino le qualità formali, la fatica richiesta per accostarsi alla sua opera è eccessiva; ed è poco letto “persino dagli eruditi”. L’esempio di per sé mostra l’orientamento del Richards: non pone in dubbio il sistema della arti, le arti sono quelle che sono, e non è possibile una discussione sul loro esistere, sul loro formarsi, ma come un libro è una macchina per pensare, l’opera d’arte non comporta una struttura armonica, un equilibrio; poiché l’equilibrio, la struttura stanno non nell’opera, bensì nella reazione del fruitore. Ed è proprio tenendo presente questo fatto che si evita di porre la questione di una formula per definire il bello. Come già in Dessoir, in Richards il problema dell’arte è divenuto tutt’altra cosa da quello della bellezza. L’arte è innanzitutto definibile come l’esperienza dell’artista. L’opera d’arte insomma è un modello di organizzazione percettiva o emotiva (una macchina) a cui il fruitore si adegua. Così veniva pensata la fruizione dell’arte nell’America dei primi decenni del secolo.

Le arti comunicano esperienze e rendono accessibili a molti degli stadi mentali che altrimenti sarebbero consentiti solo a pochi. Ma esse non giovano solo al pubblico, bensì anche all’artista, per cui sono un mezzo per procurarsi delle esperienze che egli , diversamente, non avrebbe mai. L’oggettivismo di Richards è pieno, ottuso, conformista.

Ovviamente l’artista opera, come si è visto, per sé. Non prova un interesse consapevole per la “comunicazione”, volto com’è all’organizzazione degli impulsi, al conseguimento di un’opera riuscita (sia essa una poesia, un dramma, una statua, un quadro) senza preoccuparsi della sua “efficacia comunicativa”. La sua preoccupazione maggiore sta nel far sì che l’opera “oggettivi” ed esprima la precisa esperienza da cui dipende il suo valore. Tuttavia il disinteresse dell’artista verso la comunicazione non diminuisce l’importanza della funzione comunicativa della sua opera. Ciò accadrebbe, aggiunge Richards, se si ammettesse che quelle che importano sono solo le attività consce. Infatti l’opera “riuscita” ha, secondo un’assunzione significativa di Richards, un potere di comunicazione molto maggiore che se fosse stata sbagliata. La misura in cui essa si confà all’esperienza fondamentale dell’artista corrisponde, ovviamente, alla misura in cui riuscirà a suscitare esperienze analoghe nel pubblico. Una poesia, per esempio, dedicata ad un certo argomento, non è che “la classe composta di tutte le esperienze effettive, occasionate dalle parole, che non differiscono, entro certi limiti, dall’esperienza originaria del poeta”. Come dire che chi ha visto sorgere il sole sul mare ha visto anche Impression – soleil levant di Monet. L’arte è “un’esperienza tipo”. E chiunque abbia un’esperienza che si avvicini all’esperienza tipo, fissata dall’artista, sarà in grado di giudicare l’ artistico. Mai lo spirito borghese aveva manifestato così apertamente la sua soddisfazione. Del resto , sia pure con maggiore finezza filosofica, anche Croce non aveva asserito l’identità di genio e gusto?

L’originalità fondamentale di Richards sta nell’aver posto decisamente l’accento sul problema del valore, del giudizio di valor, nonché sugli usi del linguaggio.

E’ compito del critico rivivere l’esperienza umana espressa nell’opera d’arte che vuol giudicare; egli è un “giudice di valori”. Nel caso della poesia, per esempio, il critico seziona l’opera (quasi fenomeno logicamente) in una serie di stratificazioni (reazioni) in cui si possono distinguere sei generi di eventi: 1) le sensazioni visive delle parole stampate; 2) le immagini strettamente associate a tali sensazioni; 3) le immagini relativamente libere; 4)riferimenti a, o “pensieri di” varie cose; 5)Emozioni; 6) atteggiamenti affettivi volitivi. Il che, anche se non sembra obbligatorio comportamento critico, porta tuttavia un contributo notevole all’analisi del procedimento interpretativo dell’opera d’arte.

L’altro elemento di grande rilievo, nel pensiero di Richards, e anch’esso destinato a lunghe e anche attuali rimeditazioni, consiste nella distinzione tra linguaggio emotivo (proprio della critica), il cui senso è dato dall’accettabilità, e il linguaggio scientifico, referenziale formato da proposizioni verificabili. Su queste basi feconde si formerà molta parte del pensiero estetico anglosassone posteriore.

Dewey: l’arte come esperienza

Dewey, che scrisse il suo principale lavoro dedicato all’Arte come esperienza (1934) una decina di anni dopo, cercò di risolvere il problema dell’estetica inserendolo nel suo programma di pensiero empiristico. Fu un tentativo fruttuoso che riuscì a porre in luce certe deficienze, nella costruzione della disciplina, che siamo venuti indicando sin qui innumerevoli volte. La chiave di lettura del libro risiede, a nostro avviso, nella lucidità espressa all’inizio e alla fine, con il riconoscimento della  “separazione” delle arti dall’esperienza prima, e con le prospettive dubbiose – ma storicamente fondate e, per quei tempi, accettabili e tempestive — di una possibilità, se non altro, di un ottimistico ravvicinamento.

L’arte, dunque, come si diceva, è relegata (nella cultura contemporanea) in un regno appartato, ove rimane tagliata fuori da ogni altra forma di vita. Non solo, ma, per un’ironia della sorte, l’esistenza dell’arte è divenuta incomoda per la teoria stessa dell’arte, per l’estetica: l’arte, insomma, ostacola con la sua presenza, il libero svolgersi delle trame teoriche. L’edificio, il libro, il dipinto o la statua, al sicuro nel museo, per esempio, sono considerati come oggetti che hanno una loro esistenza propria, che esistono, potremmo dire, separatamente, in sé, divisi dall’esperienza umana di cui dovrebbero far parte. Ovviamente, la loro comprensione non ne risulta favorita: Dewey vede molto chiaramente, come è evidente, la situazione prodotta dal lungo processo storico che siamo andati ricostruendo. Ma c’è di più. L’arte, quando essa sia intesa nel suo senso più prestigioso, è concepita come una classe di capolavori, di opere di valore altissimo, consacrate dalla storia, modelli di perfezione offerti all’ammirazione. E anche questo processo di  “sistemazione”, di consacrazione, è ben rilevato da Dewey che nota acutamente come  “una volta che un prodotto d’arte abbia raggiunto il grado di classico, finisce in qualche modo per isolarsi dalle condizioni umane entro le quali è nato e dalle conseguenze umane che esso provoca nella concreta esperienza della vita”. L’arte, questo è l’appello più pressante, viene relegata in un mondo a sé in cui rimane estranea, come fuori dai mezzi e dagli scopi propri ad ogni altra forma di sforzi, di tentativi e di successi umani.

Da simili premesse non può che derivare un allargamento del piano dell’esteticità; l’arte è così definibile solo come una qualità che permea l’esperienza, un’esperienza però in cui un insieme di materie e di significati non estetici diviene estetico non appena entra in un ordinato movimento ritmico verso il completamento. Per comprendere l’esteticità bisogna insomma prendere le mosse dal basso: non dalla Madonna della seggiola o dalla Quinta di Beethoven, ma dai fatti e dalle scene che attraggono i sensi dell’uomo suscitando il suo compiaciuto interesse: gli spettacoli che attraggono la folla, l’autopompa che vi passa davanti rombando, le macchine che scavano grandi buche nella terra. Per conoscere l’arte alle sue stesse sorgenti, si deve osservare come la tesa eleganza del giocatore di palla penetri la folla attenta, il piacere della donna di casa nel curare le sue piante, e così via: le radici della qualità estetica sono dunque in una particolare intensificazione del senso del vivere immediato. Occorre non rompere il filo che congiunge queste esperienze minime e vitali: i fattori che hanno consacrato l’arte collocandola su un remoto piedistallo non sorsero nel cosiddetto regno dell’arte.

In questa prospettiva l’estetica filosofica non ha buon gioco. Contro di essa (anzi contro le estetiche filosofiche che sono « molte e diverse »), si nega che sia possibile interpretare questa esperienza — come quasi sempre si è fatto – per mezzo di un unico elemento. Dewey si rifiuta recisamente all’estetica riduzionistica, che vorrebbe risolvere i problemi della definizione dell’arte per mezzo dell’identificazione di essa con una nozione in qualche modo connessavi, cercando così una impossibile “spiegazione” di essa, come dire, in termini di sensazione, emozione, ragione, attività, immaginazione, intese, come spesso accade, quali facoltà o forme dello spirito speciali.

Tutto questo, anche se Dewey, come vedremo in seguito, non potrà non prendere sotto il fuoco della sua analisi proprio quegli elementi, quelle nozioni provenientigli da una, ormai, annosa tradizione: i problemi che gli venivano posti erano quelli, anche se non era tradizionale (ma certo alla tradizione legato) il modo della loro soluzione. Dewey cerca insomma di configurare un continuum di esperienza vitale, in cui sono comprese fluidamente esperienze sensibili, emotive, immaginative, razionali, e in cui siano presenti atti quotidiani e semplici, come la cura dei fiori e dei giardini, come quelli in cui questi significati si concretano, in maniera privilegiata, in un materiale che diventa un insieme di mezzi d’espressione e significati, diventa cioè estetico nel momento che quel privilegio si  manifesta — come si è visto – in un “ordinato movimento ritmico finalizzato”. Che potrebbe essere anche la definizione deweyana dell’arte, dell’arte come esperienza, evidentemente.

Tuttavia Dewey, pur con queste premesse, si trova poi a fare i conti con tutta la struttura storica dell’arte, con questa obiettività della cultura, cui in definitiva è tenuto riferirsi. E lo fa con penetrazione e continua aderenza al suo metodo, cercando ragioni e motivazioni nuove per fatti vecchi e assicurati su un livello di valore dall’accettazione sociale, sì che quell’estetica che egli cerca di esorcizzare diventa di nuovo, comunque, l’oggetto (in molti casi polemico) del suo discorso. Possiamo tentare di fare qui qualche esempio. Si parla molto, come si sa, di espressione, a proposito di arte: e la sua risposta è che è vero; che l’espressione assume il significato che oggi ha nelle arti per ragioni precise, proprio perché l’artista è stato respinto dal corso normale delle attività sociali. Ne consegue un particolare individualismo estetico; gli artisti sono costretti ad usare la propria opera come “un mezzo isolato di auto espressione”, a costruire oggetti espressivi, che quindi comunicano, anche se questo può non essere lo scopo dell’artista. L’artista insomma è costretto a parlare di sé e della sua esperienza perché tutto il resto gli è stato sottratto, non gli è rimasto altro materiale; e infatti arte ed espressione esistono soltanto laddove il materiale è impiegato come mezzo.

Si è parlato spesso, e non solo in Dewey, ma in tutta l’estetica moderna di emozione. E’ infatti all’emozione che spetta di selezionare i materiali dell’espressione e che, in una serie di atti combinati, “ricava da una moltitudine di oggetti, numericamente e spazialmente separati, e condensa ciò che ha ricavato in un che è un’epitome dei valori appartenenti a tutti loro. Questa funzione crea “l’universalità” dell’opera d’arte”. Il valore, insomma, così come l’oggetto, è costituito dall’operare selettivo dell’emozione.

Esiste dunque un’emozione “estetica” che è qualcosa di distinto e tuttavia di non separato da un abisso dalle altre naturali esperienze emotive. L’imbarazzo teorico di Dewey è qui evidente.

La concezione implicita nella sua trattazione è “che l’opera d’arte ha un’unica qualità” e che essa “è quella di chiarire e concentrare i significati contenuti in modo debole e frammentario nel materiale delle altre esperienze”. Questa ci sembra una conclusione ineccepibile: ma che Dewey applica a un materiale artistico preselezionato nella sua cultura.

La classificazione che Dewey propone divide le arti che hanno per tramite l’organismo umano, il corpo vivente dell’artista, da quelle che dipendono invece, in misura assai maggiore, da materiali esterni al corpo. Cioè ogni arte riceve la sua caratteristica dal materiale usato come mezzo.

Di fatto la classificazione di Dewey è ispirata alle altre classificazioni tradizionali.

Anche la funzione valutativa rimane, sia pure con motivazioni rinnovate, legata al sistema tradizionale dell’estetica.

“La critica è giudizio. Il materiale su cui il giudizio si sviluppa è l’opera, l’oggetto, ma è quest’ quando entra nell’esperienza del critico attraverso l’interazione con la propria sensibilità e la propria conoscenza e il materiale immagazzinato e accumulato dalle passate esperienze“. E infatti, qui Dewey sta descrivendo il processo in cui l’arte appare, si realizza, quella in cui l’oggetto, il materiale, si trasformano in esperienza seguendo un iter interattivo. Le funzioni che il critico deve svolgere sono di discriminazione e di unificazione. Il giudizio insomma deve suscitare una più chiara consapevolezza delle parti costitutive e scoprire con quanta consistenza queste parti sono collegate per costituire un tutto, deve saper passare attraverso quegli stessi processi che l’artista ha attraversato per produrre la sua opera, deve cercare pedagogicamente di approfondire negli altri tale esperienza. Lo scopo della critica è la rieducazione alla percezione delle opere , d’arte. Per varie strade, come si vede, il materiale del sistema dell’estetica è stato riconquistato quasi nella sua interezza.

Ma, proprio alla fine del libro, Dewey riprende, da un altro punto di vista, il tema dell’inizio. Il materiale dell’esperienza estetica – afferma Dewey – è sociale. L’esperienza estetica è una manifestazione, una cronaca e una celebrazione della vita di una civiltà, un mezzo di promuovere il suo sviluppo, ed è anche il giudizio definitivo sulla sua qualità.

Ad Atene l’idea moderna dell’arte per l’arte non sarebbe stata compresa. Ogni attività univa il pratico, il sociale e l’educativo in un totale che aveva forma estetica. L’arte era in esso perché queste attività  si conformavano alle condizioni e ai bisogni dell’esperienza più intensa.

Ciò suggerisce – di nuovo – il contrasto con le condizioni attuali: ritorna il tema iniziale della frattura e della separatezza, ma Dewey non è certo pessimista. Ha presenti alcuni episodi delle arti del suo tempo e spera in un avvenire di integrazione. L’attuale isolamento dell’arte deve essere considerato  come una incoerenza della nostra civiltà industriale; ma non è solo il caso dell’arte, il problema è generale. Le cose del mondo fisico e quelle del regno morale si sono separate e ciò è la fonte ultima dei “dualismi” formulati dall’epoca di Descartes e di Locke.

“Da un certo punto di vista – afferma Dewey – il problema di restituire un posto organico all’arte nel quadro della civiltà è analogo al problema di riorganizzare la nostra eredità del passato e le conoscenze attuali in una unione immaginativa conseguente e coerente“. I segni, tuttavia, per quanto concerne le arti, non sembrano cattivi. Riferendosi forse a quella breve fioritura che fu il Bauhaus e ad esperienze vicine, Dewey ha il coraggio di indicare la forma degli oggetti industriali per trarne considerazioni favorevoli a un’attuale integrazione dell’arte nella civiltà: “vi è qualcosa di nitido — scriveva animosamente Dewey – in senso estetico in un pezzo di macchinario che ha una struttura logica che lo rende adatto al suo lavoro; e la levigatezza dell’acciaio e del rame, che è essenziale per un buon funzionamento, è intrinsecamente piacevole alla percezione”. L’estetica di Dewey termina così inaspettatamente con una poetica funzionalistica, e con una netta fiducia nel miglioramento dell’umanità e nella fine delle separazioni in cui è ancora involta, dopo tanti generosi tentativi, la nostra cultura.

Ingarden: arte e fenomenologia

E’ comune , per le analisi fenomenologiche  concernenti l’estetica, lavorare sull’ artistico già “costituito” nell’esperienza, già insomma in qualche modo, presente all’esperienza, per non dire banalmente “esistente”. L’opera letteraria del lavoro di Ingarden, assunta come struttura nella sua oscillazione fra oggettività reale e oggettività ideale, è definita come una “formazione costituita da più strati eterogenei”.

L’interesse del filosofo, insomma, non è più rivolto, come nei casi di cui abbiamo fin qui discusso, verso una definizione dell’arte, una sua giustificazione, una identificazione delle sue funzioni; ma soltanto verso la sua analisi, dandosi gli altri problemi per già scontati, che sarebbe come dire risolti, o meglio così e così presentati nella cultura; verso l’analisi quindi, come in questo caso, di una oggettività della cultura, come l’opera letteraria (ma lo stesso potrebbe dirsi per quella figurativa, musicale, cinematografica) già costituita. Ora, ogni opera, nell’analisi fenomenologica, appare formata, come si è detto da strati; e nel caso dell’opera letteraria essi sono, per esempio, lo strato fonetico, quello delle formazioni vocali più semplici e poi più complesse, lo strato delle unità di significato di diverso grado (i significati dei nomi, dei verbi, delle proposizioni), lo strato delle molteplici visioni schematizzate e della continuità e sequenze di visione (le oggettività raffigurate come reali, conformi a percezione, in un romanzo, come una città, una cosa, e gli aspetti “interiori” delle vicende psichiche come elementi dell’opera letteraria), lo strato delle oggettività rappresentate e delle loro vicende.

Il fenomenologo rileva i diversi strati dell’opera d’arte, secondo il loro ordine di apparizione, li analizza attribuendo poi a ognuno di essi un valore, che non rappresenta un suo strato, ma forma un a sé.

La qualità di valore dunque, la coscienza della polifonia armonica dell’arte, si costituisce in oggettività isolata, distaccata dall’opera che l’ha suscitata. La polifonia, l’armonia, dovranno raggiungere nell’opera stessa “il loro completo dispiegamento”.

Un’opera letteraria non costituisce un estetico in senso autentico se non quando essa viene ad esprimersi concretamente. Il che, in altri termini, ci sembra voler dire quando essa diventa un’oggettività-valore nella cultura. Al di là del gergo fenomenologico, e della finezza delle analisi e dell’esposizione, si deve notare tuttavia come il quadro del sistema estetico viva ancora intensamente pur nelle griglie metodologiche in cui la concreta opera i d’arte è inserita. Nessun termine dell’estetica tradizionale è posto in questione: né il sistema delle arti, né il valore (nella sua determinazione armonica-polifonica), né l’oggetto artistico. Per ragioni di metodo deve essere tralasciato il problema della definizione dell’arte. Ma implicitamente la nozione, la sua necessità ed esistenza, è largamente accolta.

Assai interessante quella specie di appendice al lavoro sull’opera letteraria (di cui si è sopra accennato) in cui Ingarden usa un processo quasi inverso. In luogo, cioè, di considerare l’opera d’arte come già costituita, esercitando su di essa il proprio lavoro analitico, egli costruisce l’opera d’arte all’interno dell’esperienza estetica. Qui il valore non si dà per ogni strato, è semmai una prova finale. Si comincia con un “ alla mano”, un oggetto qualsiasi, dato nell’atteggiamento naturale, qualcosa che si può vedere, toccare, distruggere, se si vuole. L’oggetto, in questo caso, è la Venere dì Milo (ma noi non sappiamo ancora che questo pezzo di marmo scheggiato è un’opera d’arte). A un certo punto ci accorgiamo che il frammentò di marmo si organizza in una forma: distolta l’attenzione dalla « cosa reale », dalle macchie scure della pietra, da certi segni di corrosione, da certe cavità accidentali, ci volgiamo a completare mentalmente il frammento, mediante una rappresentazione percettiva particolare. Ciò che ora (in quest’atteggiamento mutato) ci è dato, insomma, non è più un pezzo informe di marmo: in esso riconosciamo una Venere, una donna, una dea che ha movimento, che ha espressione, anche se non è una donna reale.

Ma che cos’è che produce il passaggio dall’uno all’altro? È ciò che, in gergo fenomenologico, si chiama “neutralizzazione”, una posizione “fuori circuito” dell’atteggiamento naturale, una “messa fra parentesi”, una “sospensione” della credenza (solo della credenza) nell’esistenza del mondo reale.

Quando percepiamo un e siamo colpiti da una particolare qualità o da una molteplicità di qualità o da una forma (Gestalt) valutativa (un colore, un’armonia di colori, la qualità di una melodia, un ritmo) che non attrae soltanto la nostra attenzione, ma che non ci è indifferente sentimentalmente, ecco che scatta in noi una speciale emozione (l’emozione “preliminare”) che inaugura propriamente il processo dell’esperienza estetica, nella quale il campo della coscienza si restringe, e si manifesta una condizione di quasi-oblio.

L’armonia di qualità è il principio finale della creazione e della esistenza dell’oggetto estetico: ad essa si rivolge la “risposta valutativa” (non ancora critica) ; il provar piacere, ammirazione, rapimento dinanzi all’oggetto estetico, intenziona l’oggetto stesso: con quei sentimenti “gli rendiamo omaggio”, riconosciamo il suo valore “nel verace sentire”.

Anche in questo caso l’operazione ingardeniana si muove, come analisi, all’interno della nozione delle arti così com’era costituita, all’interno dell’istituzione del museo o della biblioteca, le tradizionali prigioni dell’arte. L’oggetto alla mano non si rivelerà artistico perché è un sasso (come in molti casi delle arti contemporanee) e avente valore come tale, ma come la Venere di Milo.

Ancora una volta abbiamo, come in tanti altri casi di filosofi che si occupano di estetica, l’applicazione di una metodologia, apprestata per altri fini, a quello che abbiamo detto il “sistema dell’estetica”, così come era tramandato nella storia della cultura.

Heidegger: arte come esistenza

Anche Heidegger, sia pure dal suo punto di vista esistenzialistico, opera di fatto all’interno del sistema delle arti e dei suoi valori.

Per esempio: la sua indagine s’incentra sulle arti del sistema, sulla poesia soprattutto,e poi sull’architettura, sulla scultura, sulla pittura, sulla musica.

Ancora: Heidegger prende in esame solo la “grande arte”, cioè l’arte consacrata nella nostra cultura; e gli esempi che porta vanno dal tempio greco all’Antigone di Sofocle, al dipinto di Van Gogh, alla poesia di Hölderlin. E poi quel continuo assillante tentativo di definire l’arte “autentica”, la cui essenza “consisterebbe nel porsi in opera della verità dell’ente” (“l’ente è tutto ciò intorno a cui parliamo, ciò a cui in un modo o nell’altro ci riferiamo”, afferma Heidegger in Essere e tempo).

Nella complessa metafisica esistenzialistica non  v’è ovviamente posto per una “volgare” definizione dell’arte, ma v’è un privilegiamento significativo della sua esperienza; l’arte  rappresenta una svolta decisiva nell’iter della domanda fondamentale propria dell’esistenzialismo. E v’è posto, infine, anche per un riferimento alla creatività dell’artista: l’opera d’arte è un creare che attinge da un fondamento nascosto; quindi ogni fattura d’opera è un creare-attingente. “Il soggettivismo moderno equivoca il concetto di creatività, intendendola come l’azione geniale di un soggetto sovrano. Il progetto poetico viene dal nulla, ma non sorge mai dal nulla assoluto in quanto il progetto poetico della verità che si pone in opera non ha mai luogo nel vuoto e nell’indeterminato”.

Il modo di affrontare il problema da parte di Heidegger ha un sapore nettamente fenomenologico. Indagando sull’origine dell’opera d’arte, chiedendosi “dove e in qual modo sussiste l’arte”, dobbiamo muoverci in un circolo: che da un lato vede il problema assumere come proprio oggetto quello dell’essenza dell’arte, dall’altro quello in cui l’oggetto è rappresentato dall’opera d’arte stessa.

All’inizio, Heidegger sceglie questo secondo obiettivo: l’opera d’arte concreta. Gli edifici e i monumenti artistici che ornano le piazze, le opere d’arte che ornano le chiese e le case, quelle che sono conservate nelle collezioni e nelle esposizioni. Bene: primariamente, esse sono “né più né meno che cose”. Un celebre dipinto di Van Gogh, quello che raffigura un paio di scarpe da contadino è (come direbbe Husserl) una cosa alla mano, passa da un’esposizione all’altra, è imballato come un sacco di patate. Un carattere di cosa è potentemente presente nell’opera d’arte, comunque. Ma, al di là di questa sua ‘cosalità, l’opera d’arte manifesta qualcosa d’altro, lo “rende noto”: essa è allegoria e simbolo, la sua cosalità è un fondamento su cui poggia l’altro, l’autentico.

La cosa, ogni cosa, è materia formata. Anzi è spesso un mezzo, qualcosa cioè che media cosa e opera. Ma che vuol dire l’esser mezzo della cosa? Consideriamo dunque, dice Heidegger, un paio di scarpe da contadino. Ognuno sa come son fatte: calzature di legno o di corda; con suola di cuoio, tomaia, cuciture, chiodi: un mezzo che serve per camminare. Ecco in che consiste l’esser mezzo del mezzo (questa nuova visione della cosa): nella sua usabilità.

Ma nel dipinto di Van Gogh l’esser mezzo del mezzo muta sostanzialmente. Nelle scarpe raffigurate si palesa la fatica del cammino percorso lavorando. Nella massiccia pesantezza della scarpa è concentrata la durezza del lento procedere “lungo i distesi e uniformi solchi del campo battuto dal vento ostile. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messi mature e il suo oscuro rifiuto nell’abbandono invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la sicurezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bisogno, il tremore dell’annuncio della nascita, l’angoscia della prossimità della morte”. Il che, fra l’altro, è anche un bel brano di critica d’arte. Ecco, in questa visione di un’opera (“dell’esser opera dell’opera”), ottenuta mettendoci dinanzi a un dipinto di Van Gogh, abbiamo potuto stabilire che cosa le scarpe sono in verità, ciò che il mezzo-opera d’arte è.   In virtù dell’opera, il quadro di Van Gogh, un paio di scarpe giunge alla luce del suo essere. E infatti, come abbiamo visto prima, l’essenza dell’arte consiste nel porsi in opera della verità dell’ente: nell’opera d’arte, giova ripetere, se essa è veramente tale, è posta in opera la verità. Una verità superiore e diversa dalla semplice utilità del mezzo, una rivelazione, diremmo noi, di significati profondi e rimandati (il dono, il richiamo, il timore, la gioia, il tremore, l’angoscia).

L’ente, in quanto opera d’arte, si fa evento della verità.

Ma che cos’è – ecco la domanda per noi fondamentale — cos’è dunque la verità perché si realizzi temporalmente come arte? Che cos’è questo porsi in opera?

L’arte è dunque reale solo nell’opera d’arte (il circolo da cui abbiamo preso le mosse è quindi spezzato). Ma le opere d’arte sono quelle che si trovano nelle esposizioni e nei musei? No, certo. L’esposizione di un’opera è una “erezione votiva e celebrante”. L’esposizione di un’opera è un esporre dell’opera: essa espone, apre un mondo. E l’opera, in generale, si ritira nella pesantezza della pietra, nella flessibilità del legno, nella durezza e nello splendore del metallo, nella luce e nelle ombre del colore, nella tonalità del suono e nella forza nominativa della parola. Al mondo si contrappone la terra, che è ciò in cui l’opera si ritira, e l’esser opera dell’opera consiste nella realizzazione della lotta fra l’apertura del mondo e la chiusura della terra. Questa è la fantasiosa e metafisica definizione della verità dell’arte.

Il linguaggio, come si è detto, è privilegiato in questa altissima, complessivamente, considerazione dell’arte, diventata ancora una volta, diremmo, “strumento e organo della filosofia”. Il linguaggio non di tutti i giorni però, non quello che serve alla comunicazione, ma quello che nominando l’ente lo fa accedere all’apparizione, lo conduce all’Aperto, lo scopre: cioè, ovviamente, la Poesia, questo dire che è “sagra del Mondo e della Terra”. Per questo la Poesia è l’arte più originaria perché, realizzandosi nel linguaggio (nella nominazione), custodisce l’essenza stessa della Poesia. Architettura, scultura, ecc., sono un particolare modo di poetare: “l’essenza dell’arte è la Poesia” che è instaurazione di verità. E gli dei parlano per cenni. L’agire del poeta – dice Heidegger immaginosamente, in uno scritto dedicato a Hölderlin -è il raccogliere questi cenni e accennarli a sua volta al popolo. La fondazione dell’essere è legata ai cenni degli dei. Il poeta sta frammezzo agli dei e agli uomini, vive in una sfera intermedia, in cui si rivela la verità che si nasconde, gli Dei fuggiti e il Dio che viene. E Poetare (l’arte) “è l’originario nominare gli Dei”.

Lukács: arte e marxismo

Lukács, il cui pensiero è stato accolto con molta attenzione da una parte della cultura italiana, specie negli anni scorsi, cominciò ad occuparsi di estetica, come egli stesso dichiara, sin dagli inizi del secolo (dal 1911-12, quando si trovava a Firenze: i manoscritti, completati in Germania, sono stati ora resi noti col titolo L’estetica di Heidelberg) e continuò sino alla sua morte. L’ultima opera, una monumentale e incompiuta Estetica, fu pubblicata nel 1963. Per quanto ci riguarda, ci atterremo alle sue opere che in genere sono considerate centrali, e soprattutto ai Prolegomeni a un’estetica marxista del 1936, ma tenendo conto talora di altri lavori specifici come Il marxismo e la critica letteraria del 1953 e dei Contributi alla storia dell’estetica.

Uomo di parte, talora scomodo, com’è noto, Lukács rappresenta, con le sue contraddizioni, uno dei più discussi episodi della odierna cultura marxista.

E da Marx, Lukács afferma di prendere le mosse (il pen­siero si appropria del concreto, lo riproduce “come qualcosa di spiritualmente concreto”), con la mediazione di Lenin (della sua Abbildtheorie, teoria della riflessione), per costruire la nozione fondamentale della sua estetica: la creazione artistica — egli afferma – è una forma di rispecchiamento (Wiederspiegelung) del mondo esterno nella coscienza umana e rientra dunque nella teoria generale della conoscenza propria del materialismo dialet­tico.

L’estetica, insomma, che è una meditazione sull’arte, costi­tuisce una parte speciale di una più generale dottrina, quella per cui sensazioni e concetti sono copie, riproduzioni, riflessi del reale; e di essa ripete in qualche modo l’atteggiarsi. Il motivo fonda­mentale, su questa linea, del pensiero di Lukács, è il suo insistere sulle differenze fra rispecchiamento scientifico e rispecchiamento artistico: su queste differenze si costruisce propriamente la sua concezione dell’arte. Ambedue i “rispecchiamenti” infatti sco­prono e riproducono “la totalità della realtà”, ma ognuno “con i suoi mezzi specifici”. Mentre cioè nel rispecchiamento gno­seologico (scientifico) ha luogo uno sviluppo continuo dalla sin­golarità alla particolarità e all’universalità, all’inverso, nel rispec­chiamento estetico è la particolarità che viene fissata in una forma che non può essere superata: e su di essa si fonda il mondo formale delle opere d’arte.

La forma scientifica, dunque, è tanto più elevata quanto più adeguato è il rispecchiamento della realtà oggettiva che essa offre, quanto più essa è universale e compren­siva, si stacca dal fenomeno sensibilmente umano così come si presenta: quotidianamente. Una universalità, tuttavia, non astratta ma con­creta, se la legge rilevata dalla scienza è essenziale e reale.

 Invece il rispecchiamento artistico non è che la riproduzione il più pos­sibile fedele della stessa realtà oggettiva; e in questo caso non ci si propone di comprendere concettualmente le leggi universali, ma di rappresentare per immagini sensibili un particolare. Par­ticolare che comprende organicamente in sé, superandole, tanto la sua universalità quanto la sua singolarità, che non pretende all’universale nel senso della scienza, ma tende a fissare un’espe­rienza.

La “definizione” dell’arte passa, come si vede, per una distinzione derivata dalla classificazione tradizionale dei giudizi, con le sue lontane origini aristoteliche, ricuperate parzialmente, come “nessi dialettici”, attraverso Hegel, Marx e Lenin (la particolarità è un’aggiunta di Luákcs).

Ci troviamo di fronte, già sin dal­l’inizio, a un privilegiamento di due forme “dotte” nei con­fronti della “pratica” e dei suoi compiti concreti, anche se l’arte, proprio per il modo della sua costruzione, della sua con­vergenza nel particolare, per il suo attaccamento al fenomeno, “appare più vicina della scienza alla vita”. Sarebbe un errore, tuttavia, definire il piano dell’arte riferendosi all’emozione, alla fantasia, ecc., e quello della scienza riferendosi alla razionalità, in quanto sia l’uno che l’altro “si rivolgono all’uomo intero, con tutte le sue facoltà spirituali”.

È interessante notare come nel Lukács più tardo il “rispecchiamento” artistico sia identificato apertamente con l’antica mimesi “poiché imitare non può significare altro che tradurre nella propria prassi il rispecchiamento di un fenomeno della realtà”. Come si è visto, Lukács accoglie, senza obiezioni, come presupposto, la nozione di arte comune al suo tempo: il suo lavoro (e così è per tutta la sua opera) è quello di trovare per essa una collocazione e una ragione, di disegnare strutture e funzioni in maniera attendibile, di costruire insomma uno stru­mento sulle basi comuni del pensiero marxiano (o meglio, post-marxiano) capace di sistemare il coacervo di nozioni che gli pro­venivano dal passato rimotivandole dal suo punto di vista.

Non sfugge all’obbligo di dare una definizione dell’arte e, nonostante il suo rifiutare le divisioni delle “facoltà spirituali”, come la fantasia, spesso tratta della “personalità artistica creatrice”.

Nella sua tensione a costruire un’estetica che potesse trasfor­marsi in poetica, in norma, e con la sua continua ansia di superare dialetticamente ogni possibile difficoltà, o apparente limitazione, Lukács, dopo avere affermato la centralità del particolare nel movimento dell’arte, avverte in qualche modo i limiti che una tale posizione poteva far supporre. A ciò è rimedio dunque una norma, emessa nei confronti dell’artista, ma che rivela anche uno sforzo teorico.

La particolarità deve dun­que diventare principio creativo e organizzativo dell’oggettività rappresentata, sollevarla dalla frammentarietà, e conferirle il carattere di un “mondo” in sé concluso, rappresentante la to­talità, una totalità intensiva. Così che l’arte autentica non rap­presenta mai singolarità, bensì sempre totalità, anche se con la mediazione del particolare: non può contentarsi di riprodurre uomini con le loro aspirazioni, le loro propensioni o avversioni, ma deve andare oltre, nel senso di rappresentare il destino di queste prese di posizione nel loro ambiente storico sociale. “L’arte vera rappresenta dunque sempre la totalità della vita umana, nel suo moto, nel suo svolgersi ed evolversi”.

E questa sintesi artistica è possibile tramite la categoria estetica del tipo, del tipico, che conduce verso la nota identifi­cazione di arte e realismo propri di Lukács: “non a caso quindi Marx ed Engels si richiamano in prima linea a questo concetto [il tipico] quando si tratta di definire il vero realismo. Engels scrive: ‘Realismo significa, a parer mio, oltre alla fedeltà dei particolari, la riproduzione fedele di caratteri tipici in circostanze tipiche ‘ “.

La rappresentazione del tipo coincide col vero realismo in arte, diverso, e profondamente, com’è ovvio, da ogni natura­lismo, che invece tende a rappresentare la “media”, e da ogni verismo: l’arte vera aspira alla massima profondità e compren­sione, a cogliere la realtà nella sua totalità onnicomprensiva, è sempre insomma realistica.

Alle norme date dall’arte e agli artisti (si notino i verbi di “dovere”, che abbiamo sottolineati nella nostra esposizione) si aggiungono, ovviamente, le norme date alla critica. L’arte è da giudicare grande quando è realistica e partitica, sia pure nel senso costruito da Lukács, come mostrano gli esempi, spesso ripetuti, di Shakespeare, di Balzac, di Tolstoi.

Particolarmente importante è la posizione del problema delle relazioni fra contenuto e forma: ogni forma artistica è forma di un contenuto determinato. Per questo una forma realmente ed essenzialmente nuova non può essere generata che da un conte­nuto di idee sostanzialmente nuovo. Dietro ogni mutamento di forma c’è insomma una trasformazione del contenuto di vita. In connessione con ciò anche la nozione della creatività nell’arte ritorna con significativa frequenza negli scritti di Lukács: la riproduzione creativa della realtà è la fun­zione organizzatrice di un livello specifico di particolarità per ogni opera d’arte, di una forma, quindi di un contenuto.

L’opera d’arte, inoltre, ha una validità universale, derivante dal fatto che “la generalizzazione artistica della realtà può essere universalmente rivissuta da chi osserva l’opera”.

L’arte, a differenza della scienza, opera diretta­mente sul soggetto umano, è un elemento di mediazione, sia pure indispensabile, è semplicemente un mezzo per suscitare questo accrescimento nel soggetto. Una dichiarazione esplicita, come si vede, di quello che, nelle intenzioni di Lukács, indicava quale dovesse essere il ruolo e il fine dell’arte.

Infine: Lukcás opera all’interno del sistema delle arti. I suoi esempi provengono principalmente dalla letteratura (egli fu anche notevolissimo critico letterario), ma anche dalla pittura. Una dichiarata adesione al tradizionale “sistema” è tuttavia contenuta nell’Estetica, dove anche la musica e l’architettura sono ridotte ad arti mimetiche, arti del rispecchiamento. Le “arti applicate” sono escluse, significativamente, dalla sfera dell’arte: esse producono “un tipo peculiare di oggetti capaci di suscitare emozioni: sotto molti aspetti esso è vicinissimo alla sfera estetica, ma si distingue da essa proprio perché manca delle sue determinazioni specifiche più decisive”. L’arte, afferma Lukács, l’ “estetico”, non si dissolve completa-mente nella vita quotidiana degli uomini. Anche se essa è indubbiamente “un fenomeno sociale”, la sua estensione eccessiva trasformerebbe quella verità in una falsità. Il vecchio sistema delle arti resta, evidentemente, integro e non scalfito da dubbi, nel pensiero di Lukács. Il suo « distogliere lo sguardo », o la sua aperta ostilità nei confronti dell’attività delle avanguardie storiche (considerate come segni di degenerazione), ne sono evidenti conferme.

Freud e Jung: arte e psicanalisi

 L’uso di nozioni e di procedimenti mutuati dalla psicanalisi ha assunto un rilievo così notevole nella critica e nell’estetica contemporanee che occorrerà trattarne, sia pure brevemente, anche se, a rigore, essa non costituisce un’ “estetica” nel senso tradi­zionale, quello in cui – pur sotto aspetti diversissimi – ci si è configurata sin qui. Come disciplina psicologica e psichiatrica (in senso largo) la psicanalisi ha soprattutto cercato nell’arte (almeno in origine, in Freud, per esempio) conferme alle sue teorie, nella letteratura così come nella pittura e nella scultura. L’accet­tazione pregiudiziale e in toto della nozione tradizionale (e spesso neoclassicistica) dell’arte, come del sistema delle arti, sono una sua prerogativa essenziale. L’arte è esaminata come qualcosa di ve­ramente esistente, e così l’artista, senza che alcuna interrogazione sia formulata, almeno direttamente, sulla formazione di quelle nozioni. Non perché si negasse un’eventuale essenza dell’arte, ma proprio perché si accettava l’idea ritenuta comune nei primi decenni del secolo. Ciò fu riconosciuto, d’altronde, dagli stessi fondatori del movimento psicanalitico. Freud dichiara francamen­te che “l’analisi non può dirci nulla a proposito della spiegazione del dono dell’arte; e la rivelazione dei mezzi di cui l’artista si serve per creare, il disvelamento della tecnica artistica non è più di sua competenza”. E Jung, meno radicalmente, ma forse più chiara­mente: “soltanto quella parte dell’arte che comprende i processi di formazione artistica può essere oggetto di studi di tale genere, ma non quella che rappresenta l’essenza medesima dell’arte. Que­sta seconda parte, che cerca di sapere in che cosa consista l’arte in se stessa, non può divenire oggetto di indagine psicologica, ma soltanto di un esame estetico-artistico”.

Freud, in un suo celebre scritto degli inizi del secolo, prende in esame il problema della personalità dell’artista, del poeta (Il poeta e la fantasia) accogliendo quindi l’ipotesi comune della connessione di arte (poesia) e fantasia, e presupponendo così una quasi-definizione dell’arte. È ovvio, che nella sua ricostruzione genetica prenda le mosse dal gioco dei bambini (un vecchio tópos dell’estetica classica), nei quali già si possono trovare le tracce dell’attività poetica; per esaminare poi la sua “continuazione” nell’attività fantastica degli adolescenti. Invece di giocare, dice Freud, essi fantasticano, fabbricano castelli in aria. Ora l’uomo sano e felice non fantastica; e chi fantastica ha vergogna delle sue fantasie, e le tace. Ma v’è una specie di uomini, “vittime di malattie nervose”, i quali, posti sotto trattamento medico, debbono “confessare anche le loro fantasie, desideri ambiziosi e desideri erotici in genere”, anzi, l’eccesso di intensità delle fantasie costituisce proprio le condizioni per la caduta nella nevrosi o nella psicosi.

Il poeta, lo scrittore, quello che crea liberamente la sua materia (che, insomma, in altri termini “si esprime”) e non la rielabora semplicemente dalla tradizione, dai miti, può proficuamente essere confrontato col sognatore, con l’uomo fantasticante. Questo, come si è visto, è costretto a nascondere accuratamente il suo fantasticare per vergogna. Se poi lo comunicasse a qualcuno (che non fosse lo psichiatra) susciterebbe, dice Freud, ripugnanza o comunque freddezza. ”Quando invece il poeta ci rappresenta i suoi drammi o ci racconta ciò che noi siamo inclini a interpretare come suoi personali sogni ad occhi aperti, proviamo un vivissimo piacere che sembra provenire da molte fonti confluenti”. La vera arte poetica consiste dunque nella tecnica per superare la nostra ripugnanza, la quale è in connessione con le barriere che si elevano fra ogni singolo io e gli altri. Certo, il poeta trasforma la sua fantasticheria, la altera la vela, la pone su un piano estetico, le dà appunto una forma. Questo suscita nel fruitore non più ripugnanza, ma piacere, godimento, seduzione, ha cioè un effetto catartico: “il vero godimento dell’opera poetica” proviene “dalla liberazione di tensione nella nostra psiche”, poiché, attraverso il velo della poesia ci si pone nelle condizioni di gustare le nostre fantasie “senza quel rimprovero e senza vergogna”.

 Freud nonostante che affermi di riferirsi, per quanto si è detto sin qui, più a “modesti scrittori” che a grandi artisti, confermò la sua visione dell’arte dedicando famose e quasi proverbiali analisi a opere, per esempio, di Leonardo, di Michelangelo, di Shakespeare (“geni” per eccellenza), in cui, come è stato  ripetutamente notato (e come Freud aveva lucidamente visto), lo sguardo dell’analista è volto soprattutto al significato dell’opera, alle implicazioni psicologiche, alle indagini sulle motivazioni profonde dell’autore, ai fatti psichici moventi, non alla forma in cui l’opera si realizza, non al suo “valore”, che viene semplicemente “accettato” dall’uso culturale, come notò acutamente E. Kris, uno psicanalista freudiano che era stato anche un eminente storico dell’arte. Egli scrisse che l’indagine psicologica, alla fine, “non ci consente di stabilire una distinzione sulla nostra reazione all’Amleto e quella a un libro giallo”, commentando poi: “ed è tutto dire, per un accostamento psicologico allo studio dell’arte”.

Tuttavia, nonostante che la dottrina di Freud sembri non toccare per niente la nozione tradizionale di arte (anch’egli guardava con sospetto alle avanguardie: è noto il suo atteggiamento nei confronti del surrealismo che pure qualcosa gli doveva), proprio le correnti freudiane attuali, con una interpretazione e applicazione differente del suo pensiero, hanno dato un notevole contributo alla messa in questione di quegli schemi che innanzi abbiamo detto ”il sistema dell’estetica”.

Esponiamo ora, brevemente, il pensiero attinente all’estetica di Jung  , collaboratore e poi oppositore di Freud, come è noto. Anch’egli, e l’abbiamo già visto, muovendo dalla psicologia, sente di trovarsi “fuori dall’arte”, che, d’altronde, è la condizione “per poter conoscere”, per “dare un senso” al “processo creativo”. Ora, nella terminologia junghiana, l’opera d’arte è da considerare come un “complesso autonomo”, cioè come una di quelle strutture psichiche, indipendenti dalla coscienza, che “dapprima si sviluppano in modo del tutto incosciente e che solo dal momento in cui giungono alla soglia della coscienza irrompono in essa”. Un complesso autonomo (in generale) si forma quando entra in attività una regione della psiche sino allora incosciente e “una volta animata si sviluppa e cresce, attirando verso di sé le associazioni con essa affini”. Ma, facendo ciò, essa sottrae energia alla coscienza, che regredisce, degenera. Il “complesso creatore” si presenta come analogo a un processo morboso, il divino furore dell’artista (la théia mania di Platone) presenta “un rapporto veramente impressionante con la malattia”, senza esserle identico; esso dunque “richiede un orientamento del tutto diverso da quello medico” (però, “l’analisi psicologica degli artisti mette sempre in evidenza la potenza dell’impulso creativo artistico, e ci mostra quanto esso sia irregolare e dispotico”).

Anche la pratica artistica, come il processo morboso, dunque, vede l’irrompere nella coscienza di qualcosa che proviene da altrove, e il suo divenire centrale, il suo aggregarsi, il suo associarsi e strutturarsi nell’opera. L’analisi dovrà concentrarsi su questa, si dovrà tentare di giungere alle sue fondamenta. L’opera ci offre intanto la sua immagine, ce la pone di fronte: se l’immagine resta tale, se essa non lascia trasparire alcun simbolo, se insomma non manifesta alcun significato riposto oltre quello che essa apertamente dichiara, non ci è possibile sottoporla ad analisi. Essa resta lì, parlante ma non trasparente, mancante quindi dello spessore simbolico. Perché esser poeta significa far risuonare dentro le parole “la parola primordiale”, far apparire l’immagine primordiale. Ma queste origini, questi simboli, non sono da ricercarsi – questo è il punto – nel subcosciente personale dell’autore, “ma in quella sfera della mitologia corrente, le cui immagini primordiali sono proprietà comune dell’umanità”, in ciò che la dottrina junghiana aveva già definito col termine di “incosciente collettivo”, allo scopo, appunto, di distinguerlo dal subcosciente personale. L’incosciente collettivo non esiste di per sé, ma solo come possibilità innate di rappresentazione, categorie dell’attività della fantasia, idee a priori che si rivelano solo nell’esperienza: che appaiono – dice Jung – “solamente nella materia formata, quali principi regolatori della sua formazione”, che è come dire, in questo caso specifico, nell’opera d’arte. E infatti il modello primordiale non può essere ricostruito se non attraverso l’analisi dell’opera compiuta.

L’immagine primordiale: l’archetipo, nella terminologia junghiana, “figura mitologica” risultante di innumerevoli esperienze tipiche di tutte le generazioni passate, media di milioni di esperienze individuali. Per questo ogni relazione con l’archetipo è commovente: perché colui che rivela immagini primordiali, che parla con esse, per mezzo di esse, è come se parlasse con mille voci, egli innalza il destino personale a destino dell’umanità. E il processo della creazione artistica adempie proprio a questa funzione, consiste in una animazione cosciente dell’archetipo, “nel suo sviluppo e nella sua formazione, fino alla realizzazione dell’opera perfetta”. L’artista traduce nella lingua d’oggi l’immagine primordiale: e in ciò sta l’importanza sociale dell’arte, in quanto è innegabile, in questa prospettiva, la sua funzione educativa dello spirito contemporaneo, rivelandogli, estendendogli le forme che gli necessitano. Così, con questo continuo aderire alla contemporaneità della funzione dell’artista, si spiega anche la storicità dell’arte: essa rappresenta infatti, nella vita delle nazioni, nelle diverse epoche, un processo di autoregolazione spirituale.

Assai diversamente appare l’opera d’arte che trae le sue ori­gini non dall’incosciente collettivo, ma dal subcosciente personale dell’autore (come accade nella dottrina freudiana), che è da con­siderarsi come la totalità di quegli eventi psichici che di per sé avrebbero la possibilità di essere coscienti (e talora lo sono stati), ma che, per la loro incompatibilità, sono stati repressi e tenuti artificialmente al di sotto della coscienza. Anche da questa sfera – aggiunge significativamente Jung – “sgorgano energie artisti­che”, ma sono torbide, e “quando prendono il sopravvento, l’opera d’arte che esse producono non è simbolica, ma sintoma­tica”. Ciò per dire che la nozione di arte configurata da Freud è quella di un’arte che non è simbolica (non è grande arte), ma è sintomatica, e concerne solo, quindi, una particolare situa­zione morbosa. Jung qui offre, forse senza averne piena consa­pevolezza, sul piano estetico, un vero e proprio criterio di va­lutazione per le opere d’arte: buone, educatrici, necessarie, equi­libratrici, funzionali, quelle che attingono le loro forme all’incon­scio collettivo; cattive, torbide, superficiali, quelle che “sgorga­no” dal subcosciente personale dell’autore. Nel primo caso l’artista adempie una funzione educatrice, sociale, nobilissima, nel secondo è un ammalato e un isolato, e l’opera d’arte riguarda soltanto lui stesso.

 Ancora qui si conferma dunque l’accettazione indiscussa del sistema delle arti, la concezione tradizionale del­l’arte come creazione e comunicazione, il suo carattere simbolico, l’eccezionalità della personalità dell’artista, i suoi fini educativi e sociali, la sua storicità, giungendo sino a proporre una norma per la critica.

 Come nel caso di Freud, il pensiero di Jung, in generale, non solo le sue idee specificatamente dedicate all’arte, ha avuto largo seguito nella critica e nell’estetica contemporanee, soprat­tutto per le parti del suo lavoro che concernono il mito, l’alchimia, l’iconologia, e, ovviamente, la teoria degli archetipi.

 Morris: arte e semiotica

 Si è ripetuto sovente come le arti (quelle del sistema, ovviamente) siano state modernamente identificate col linguaggio. E perciò introduciamo a questo punto un esempio eminente dell’accettazione, insieme, del partito linguistico e significativo delle arti, formulato dal più noto rappresentante della moderna semiotica, Ch. Morris, di cui fu tra gli iniziatori e sistematori nell’ambito del comportamentismo e del neopositivismo.

 Nel corso della sua indagine, anche la musica e la pittura sono indicate come “fenomeni segnici” con caratteri linguistici. Si deve premettere che fra le varie accezioni di “segno” (un segno è “qualcosa che dirige il comportamento nei confronti di qualcosa che per il momento non è uno stimolo”), Morris introduce quella di “segno iconico”, che è un segno che possiede le proprietà di ciò che esso denota: una fotografia di un oggetto, per esempio, è un segno iconico. Così, nel caso di un dipinto “realistico” o di una musica, com’egli dice, “programmatica”, sembra chiaro che “gli oggetti riconoscibili (quali sedie o persone dipinte, o un ritratto di oggetto o persona “dipinto” con materiale sonoro), forniscono un vocabolario di segni che sono combinati “grammaticalmente” in vari modi, secondo lo stile di una particolare scuola o di un artista. Ma anche in opere non realistiche, “formali”, il significato resiste, è identificabile: infatti le arti possono essere considerate in generale, come dipendenti dal linguaggio parlato, meno adeguate per certi scopi della comunicazione, ma più adeguate per altri: inoltre, caratteristica che le avvicina alle altre forme di discorso, esse possono significare nella maniera apprezzativa (valutativa), prescrittiva (possono esprimere un comando), formativa (modificando le disposizioni a rispondere ad altri segni). Tuttavia, l’iconicità non è un criterio per contraddistinguere le “arti belle” (Morris usa ancora, nel 1946, questa espressione), cioè non è un criterio valutativo: ci possono essere icone artisticamente valevoli ed altre che non lo sono.

 Come in tutte le estetiche che si rifanno alla definizione lin­guistica dell’arte, anche in quella di Morris il problema della va­lutazione resta sospeso. La categoria linguistica è assai più vasta di quella artistica: come definirne i limiti all’interno della prima? Nessun segno è “estetico”, come tale, afferma Morris, renden­dosi ben conto della sua posizione, “ed il tentativo di isolare le arti belle individuando una speciale classe di segni estetici appare ora un errore”.

 Se una particolarità può essere riconosciuta alle arti, nel loro insieme, essa deve essere ricercata nell’uso valutativo dei segni (evidentemente prevalente sugli altri usi innanzi proposti, il pre­scrittivo e il formativo), e nel fatto che i segni stessi, per il modo con cui sono impiegati, debbano suscitare una valutazione positiva di essi come oggetti finali. Il segno, insomma, presenta se stesso come oggetto di valutazione.

 L’opera d’arte è un segno che designa un valore.

 L’arte dunque “presenta”  valori dell’esperienza, è il linguaggio con cui si comunicano valori; l’artista, nel suo operare, costruisce valori, comunica valori.

Anche nel caso di Morris, come si vede, l’accettazione della tradizionale nozione di arte, del sistema delle arti, è piena e completa. . Il suo sforzo è diretto a trascrivere, nei termini della sua semiotica, i dati e i problemi che gli provenivano da un mondo di cultura che egli accoglie senza metterne in questione le origini e la costituzione.

Il suo pensiero ha esercitato, pur nella relativa episodicità dei suoi interventi, una notevole influenza su certe aree dell’estetica contemporanea, mentre certe caratteristiche espressioni (prima fra tutte quella di “segno iconico” o “icone”) sono entrate nel comune uso della cultura anche relativamente al di fuori di riferimenti al complesso della teoria morrisiana.

Jakobson: poesia e strutturalismo

Diversamente da ciò che accade all’interno del com­portamentismo morrisiano, in questa direzione, si ricercano le potenzialità che, nel sistema della lingua, generano il discorso poe­tico o narrativo, quali che siano le loro strutture, le loro forme, i loro modi di comunicazione. Già nel 1917, Sklovskij (uno dei più insigni rappresentanti del movimento formalista russo, attivo dal 1916) affermava che “ciò che si chiama arte” esiste “per restituire il senso della vita, per ‘ sentire ‘ gli oggetti, per far sì che la pietra sia pietra”. Scopo dell’arte – continua Sklovskij – è di “trasmettere l’impressione dell’oggetto come ‘ visione ‘ e non come ‘ riconoscimento ‘; procedimento dell’arte è il procedimento dello ‘ straniamento ‘ degli oggetti e il proce­dimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata della percezione, dal momento che il processo percettivo dell’arte è fine a se stesso e deve essere prolungato; l’arte è una maniera di ‘ sentire ‘ il divenire dell’oggetto, mentre il ‘ già compiuto ‘ non ha importanza nell’arte”. Una definizione dell’arte, in ge­nerale, dunque, che non è limitata alla letteratura, ma che può essere estesa; e che solo mediatamente rimanda alle assegnazioni di valore tradizionali. Le tesi del Circolo linguistico di Praga (elaborate da Trubetzkoy, Jakobson e altri nel 1929) affrontano gli stessi argomenti. All’interno del linguaggio si possono ricono­scere due finalità, una comunicativa e una espressiva; e, paral­lelamente, due funzioni, una funzione comunicativa e una fun­zione poetica. “Dalla teoria in cui si afferma che il linguaggio poetico tende a mettere in rilievo il valore autonomo del segno, risulta che tutti i piani di un sistema linguistico, aventi nel lin­guaggio della comunicazione un ruolo strumentale, assumono nel linguaggio poetico valori autonomi più o meno notevoli”. In questa autonomia, specificità del valore del segno è da riconoscere il valore della poesia (e, com’è immaginabile, per estensione, delle altre arti).

 La domanda che Jakobson si pone è quella consueta: “che cosa è che fa di un messaggio verbale un’opera d’arte?”.

L’oggetto dell’indagine di Jakobson è quello che egli chiama, come era da tempo in uso negli ambienti formalisti, “poetica”, un’analisi insomma rivolta verso le strutture del linguaggio poe­tico. Ma è bene sin d’ora isolare alcune nozioni chiave del pen­siero di Jakobson, che ci serviranno per meglio intenderne il senso, e metterne in rilievo le aporie. E ci soffermeremo, innanzi tutto, sulla asserita impossibilità di identificare critica e poe­tica; il critico, infatti, è portato a dare “un giudizio soggettivo e censorio”, a proclamare, attraverso il suo lavoro, i suoi gusti, le sue opinioni personali sulla poesia.

 Una singolare messa fuori circuito della critica, come si vede, relegata nel più banale sog­gettivismo, nella più inconsistente arbitrarietà. Alla aleatorietà dei giudizi “valutativi” della critica, Jakobson oppone quelli che sono i compiti della poetica; e così la ricerca e la descrizione “dei valori intrinseci dell’opera letteraria”, “l’analisi scientifica obiettiva dell’arte del linguaggio”.

 Non più “giudizi valutativi”, dunque, (quelli del critico), ma “descrizione dei valori” dell’opera letteraria, resa oggetto e studiata nella sua struttura, dalla quale però dovrebbe appunto emergere proprio quel valore che do­vrebbe essere giusto “descritto”.

 Oggetto dello studio della poetica è, innanzi tutto, la “fun­zione poetica”. Ma per comprendere quello che Jakobson voglia intendere occorrerà ripercorrere brevemente la tavola delle di­verse funzioni del linguaggio. Esse sono rilevate (sulla scorta dei princìpi della scuola praghese, come si ricorderà), consi­derando principalmente quali siano i fattori costitutivi di ogni processo linguistico: un mittente, un messaggio, un destinatario. Il messaggio per essere operante richiede il riferimento a un contesto (detto anche “referente”) verbale o suscettibile di verbalizzazione, ma richiede anche un codice comune (parzialmente o interamente) al mittente e al destinatario; infine un contatto, un canale fisico e una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario, sì da rendere possibile la comunicazione. Ognuno di questi fattori dà origine a una funzione linguistica diversa. È proprio all’interno di questa operazione che si farà emergere, nella stessa struttura formativa del linguaggio, una speciale fun­zione, la funzione poetica.

 Dunque, in ogni messaggio si può rilevare una funzione pre­dominante, cui le altre sono comunque subordinate. Se all’interno del messaggio predomina il mittente, allora si può parlare di funzione espressiva o emotiva (a proposito della quale, si badi, non si parla della funzione poetica, ma dell’interiezione, ecc.); se la parte più importante è il destinatario ci troviamo dinanzi alla funzione conativa (vocativo, imperativo); se invece è in maggiore evidenza il contatto, allora la funzione si dice fatica (come quando si vuol richiamare l’attenzione del destinatario: pronto! ascolta!); se il discorso è centrato, poi, sul codice, si rivela la funzione metalinguistica (come avviene quando si spiega il significato di una parola, di un’espressione, ecc., si parla in­somma della lingua in cui il messaggio è formulato). Resta da considerare un fattore: il messaggio. Ebbene, dove esso predo­mina si rivela la funzione poetica del linguaggio.

 È da sottolineare anche come certe assunzioni, filosofica­mente fondamentali, siano presentate senza alcuna mediazione dimostrativa e neppure discorsiva: come quella, appunto, che con­centra sull’autovalenza del messaggio la funzione poetica, ponendo in situazione subordinata le altre attività linguistiche (compresa come si è visto l’espressione), che ne rappresentano “un aspetto sussidiario, accessorio, complementare”.

La funzione poetica si configura insomma come privilegiata, sia perché sta alla base dei valori colti della poesia (con la quale tuttavia non deve essere con­fusa), sia perché, mettendo in luce l’evidenza dei segni  “appro­fondisce la dicotomia fondamentale dei segni e degli oggetti”.

 Un’altra distinzione, quindi, effettuata mediante il linguaggio, fra atteggiamento conoscitivo e atteggiamento poetico (-artistico). Anche in questo caso un importante problema filosofico, il privilegiamento degli aspetti suddetti dell’atteggiamento linguistico è dato, e non fondato ade­guatamente.

 La funzione poetica, si è detto, non è da confondere con la poesia, anche se la sua presenza è determinante, afferma Jakobson, in ogni “opera poetica”.

 La fun­zione poetica si riconosce empiricamente tenendo presenti i due procedimenti fondamentali di costruzione usati nel comportamento linguistico: la selezione e la combinazione.

 Jakobson descrive minutamente il modo in cui queste operazioni avvengono all’interno della funzione poe­tica (o perché si manifesti la funzione poetica): “La funzione poetica proietta il principio di equivalenza dall’asse della selezione all’ asse della combinazione”. Viene costruita quindi una specie di grammatica delle varie configurazioni della funzione poetica, una guida e una serie di campioni e modelli per riconoscerla in ogni circostanza. Dalle frasi celebri {Veni, vidi, vici) alle espres­sioni comuni, ai versi delle poesiole pubblicitarie, alla versifica­zione in genere, alla poesia didascalica, alla poesia popolare.

 Una rispo­sta chiara alla domanda fondamentale “che cosa fa di un messaggio verbale un’opera d’arte”, non viene data direttamente. Possiamo però leggerla decisamente nel contesto. Posto che non è il gusto soggettivo del critico a stabilire cos’è che fa un’opera d’arte, dove troveremo un criterio per stabilirlo, sempre all’interno della funzione poetica? La funzione poetica, dichiara Jakobson, svolge “un ruolo vincente, determinante” in poesia, “dove questa funzione predomina”.

 E il predominare di questa fun­zione non può esser visto che in quelle equivalenze, combinazioni di sillabe, accenti, atone, lunghe, brevi, limiti di parola, assenza di limite, pausa sintattica, sillabe, versificazione, metri, toni, rime. E poi, mediante, per esempio, le interazioni metrico semantiche, i parallelismi nel ritmo, nel metro, nell’allitterazione, nell’asso­nanza, nella rima, che suscitano corrispondenti parallelismi nelle parole e nel pensiero (anzi si può dire che il parallelismo più marcato nella struttura genera il parallelismo più marcato nelle parole e nel senso): metafora, similitudine, parabola, antitesi, contrasto; il simbolismo fonico, le similarità fonetiche valutate in termini di similarità e/o dissimilarità semantica. Quello che si dice, insomma, la struttura dell’opera poetica e che lo stesso Jakobson – come si è visto – ha chiamato struttura verbale. In poesia, infatti, “non soltanto la sequenza fonematica, ma cosi pure ogni sequenza di unità semantiche tende a stabilire un’equa­zione. La sovrapposizione della similarità alla contiguità confe­risce alla poesia quell’essenza simbolica, complessa, polisemica che intimamente la permea e l’organizza”. Che, se non è una dichiarazione teorica diretta dell’essenza stessa della poesia, una sua definizione, dato il contesto in cui appare, è tuttavia una esposizione delle modalità della sua costruzione, del suo senso, della sua intrinseca finalità, del suo valore. È proprio l’equa­zione poetica (rilevata scientificamente negli elementi linguistici che la compongono) che si configura in termini appunto di valore, una volta tanto, che indica e adduce i caratteri peculiarmente poe­tici, il suo simbolismo, la sua complessità, la sua polisemia che sono i principi della sua organizzazione, gli artefici della struttura.

 Nel disordinato affollamento dei riferimenti, nelle esposizione  di esempi e di trattazioni particolari emerge obliquamente tut­tavia, come si è visto, l’essenza poetica; anche se non viene esplicitamente mostrato, viene chiaramente fatto intendere quale tipo di poesia sia rilevabile scientificamente.

 Jakobson non poteva passare dalla parte del “critico soggettivista”, ma voleva in­dicare come un’analisi accurata portata sulla struttura del mes­saggio in quanto inteso come centrale nel processo di comunicazione poteva anche portare a indicare, all’interno della funzione poetica, la sottoclasse della poesia simbolica, polisemica, con tutti gli attributi della poesia tradizionale.

 Jakobson non dà una giustificazione filosofica della sua assunzione. Gli basta di aver mostrato – senza dimostrarlo – come è possibile giungere scien­tificamente al cuore dell’oggetto poetico. Ma le sue reticenze filo­sofiche sono un’indicazione significativa che egli annetteva impor­tanza più al metodo che suggeriva (e che è risultato e risulta fecondissimo) che non alle dichiarazioni generali. Le dichiara­zioni su cui insiste sono quelle sulla inseparabilità di poetica e linguistica e sulla specificità della funzione poetica. In definitiva, una conferma di come, anche in questo ambito di cultura, la poesia e l’arte in genere sono considerate oggettività di valore già co­stituite che non resta che studiare con accurati metodi scien­tifici.

 Stevenson: arte e analisi

 Il grande ceppo della filosofia analitica non poteva del tutto disinteressarsi delle questioni estetiche. Già il lontano inizia­tore di questo tipo di analisi, G. E. Moore, aveva tolto spesso i suoi esempi dall’estetica, pur restando la morale il suo campo pe­culiare d’indagine. Altre indicazioni interessanti per gli svolgi­menti della questione potevano ritrovarsi in molti neoempiristi: ne prendiamo uno, per campione, anche perché è il solo che abbia in qualche modo esasperato il problema, aprendo la via a importanti svolgimenti. Vogliamo dire del notissimo Linguaggio, verità e logica di A. J. Ayer (1936) , ove era sostenuta la insen­satezza dei giudizi estetici, la impossibilità di discutere questioni di valore estetico, ma solo questioni di fatto (un atteggiamento simile era assunto anche per quanto concerne la morale). Il pro­gramma di Ayer (il suo libro era una specie di manifesto del posi­tivismo logico nella sua accezione anglosassone) volgeva verso una trattazione scientifica dell’estetica, la quale ci mostrerebbe quali siano in generale le cause del sentimento estetico, sul perché le va­rie società producano e ammirino quelle loro opere d’arte invece di altre, perché il gusto cambi, e così via. Ora, proseguiva Ayer, tutto questo – questa ricerca positiva scientifica intorno a un’atti­vità e a una produzione « artistica » che non è posta in questione neppure dall’acribia neoempiristica – non varca i confini di nor­mali questioni psicologiche e sociologiche, e ha poco a che fare con ciò che s’intende “per critica estetica”, cioè con l’assegna­zione, potremmo commentare, del valore estetico a un’opera d’arte. Mentre da un lato, insomma, Ayer promuoverebbe una ricerca “scientifica” su una serie di eventi “artistici”, dall’altra toglie, come ora vedremo, qualsiasi credibilità all’attività che li costi­tuisce come tali. Infatti, la critica estetica (ciò che, dobbiamo intendere, dichiara “artistica” un’opera d’arte) “non si propone di dare conoscenze quanto di comunicare emozioni”. Richiamando l’attenzione su certe caratteristiche dell’opera in esame ed espri­mendo i propri sentimenti in proposito, il critico si sforza di farci condividere il proprio atteggiamento nei confronti dell’insieme. Le sole proposizioni di rilievo che egli formula, sono proposizioni descrittive della natura dell’opera. E queste sono semplici regi­strazioni di fatto. Perciò, prosegue Ayer, concludendo, “nel campo dell’estetica non si trova nessuna giustificazione migliore che in quello dell’etica per sostenere che l’estetica formi un tipo di conoscenza sui generis”.

 A questa posizione rigidissima di Ayer rispose qualche anno dopo  Ch. L. Stevenson, prima con un intervento determinante per l’analisi del discorso morale (Etica e linguaggio, 1944), poi, sei anni dopo, con un tentativo di applicare gli strumenti del suo primo lavoro, al discorso critico. Non vi è affrontato quello che potremmo dire “il problema dell’arte” in generale (l’arte, le arti del sistema, sono date come già presenti, costituite), ma solo il problema della interpretazione e della valutazione di un’opera d’arte. Proprio in questa nuova angolatura che Stevenson dà al problema (preceduto, su un terreno diversissimo da un Ingarden che gli era certo sconosciuto) è da considerare la sua originalità e il peso che egli eserciterà nella cultura successiva.

 Si rivelano sempre, nella pratica critica, afferma Ste­venson, a) un’opera d’arte, cioè un oggetto fisico o un evento, b) un osservatore, c) le condizioni di osservazione di b), d) le “appa­renze” con cui l’opera d’arte si presenta allo spettatore, e) le proprietà artistiche possedute dall’opera stessa. Ora, l’oggetto fisico o l’evento sono postulati come immutabili, nel senso che essi si daranno esattamente nello stesso modo in due diverse osservazioni (in due letture condotte a distanza di tempo, in due diverse esecuzioni), mentre l’osservatore (la sua sensibilità, la sua attenzione) e le condizioni di osservazione potranno variare.

 L’indagine comincia prendendo in esame un esempio di at­tribuzione di proprietà artistiche all’opera d’arte, come, per esempio, “il tema musicale che abbiamo ascoltato è allegro”, e procedendo nell’analisi, traducendo la primitiva proposizione in un’altra che è riconosciuta possedere lo stesso significato e che è: “il tema musicale appare allegro a coloro che lo ascoltano nelle condizioni x”.

 La definizione, afferma Stevenson, sembra circolare. Ma questa circolarità, se­condo Stevehson, può essere eliminata introducendo due sensi diversi in cui considerare l’attributo “allegro”: un senso com­plicato (c) che assegna una proprietà a un tema musicale (o a qualsiasi altra opera), e un senso semplice (s) che assegna la qualità a certe apparenze del tema. Quindi potremmo trascrivere la pro­posizione iniziale nel modo seguente: “Il tema musicale è alle­gro” ha lo stesso significato che “il tema musicale appare alle­gro” a chi lo ascolti nelle condizioni x, rompendosi così la circo­larità della definizione precedente. Il problema è così trasferito dall’oggetto alle condizioni di osservazione x, in quanto proprio una loro determinazione univoca permetterà di passare ad una inter­pretazione o valutazione dell’opera d’arte.

 Ma quale specificazione delle condizioni di osservazione può essere sostituita alla variabile x? Ovviamente, le risposte stevensoniane sono tutte pragmatiche, insufficienti a definire “in maniera scientifica” le condizioni di osservazione (questa ricerca di una scientificità nell’esercizio critico ricorre di frequente, come si vede, nell’estetica contemporanea). I vari tentativi, esperiti a questo proposito, non possono che fallire. E quindi occorrerà cercare i criteri delle condizioni di osservazione in un campo che non sia scientifico: provandoci, cioè, a ricercare come si comporti il cri­tico quando dà il suo apprezzamento, o quando attribuisce qualità, a un’opera d’arte. Ma la scelta da parte del critico di determi­nate condizioni di osservazione non può apparire che arbitraria. Il “modo giusto” da lui assunto e proposto per porsi di fronte ad una certa opera d’arte, sì da trarne un giudizio sulle qualità o sul valore di essa, non appare legato a fatti accertabili, rimane al di fuori del campo aperto all’indagine razionale.

 Tuttavia, il critico, nello scegliere il “modo giusto”, le condizioni giuste, per osservare un’opera d’arte e assegnarle certe qualità, cer­cherà di documentarsi, eviterà di prendere le sue decisioni in uno stato di ignoranza, ma richiamerà alla mente quelle conoscenze che potranno servire a guidare la sua decisione. E queste cono­scenze sono controllabili: possono essere argomenti di carattere storico, filologico, e così via. Certo, anche cosi, il rapporto fra la conoscenza e la decisione del critico non è di natura logica. È, come usa dire spesso Stevenson, un rapporto causale, psicolo­gico. Però di carattere obiettivo, offerto alla verifica.

 Le credenze che guidano la decisione sono soggette a prove empiriche, e quindi possono essere esaminate con metodi “scientifici”, essere discusse. Tuttavia, sorge un altro problema importante forse il più importante dell’estetica stevensoniana). Si parlava innanzi di “modo giusto” di osservare l’opera d’arte. Ma “giusto” è un aggettivo di valore, e implica inoltre un significato quasi-imperativo. Come connettere un im­perativo con una relativa scientificità della proposizione?

 Poiché ogni imperativo può essere sostenuto da ragioni (“chiudi la finestra!”; “perché?”; “perché fa freddo”), Stevenson, ac­centuando il senso imperativo di “giusto” riesce a collegare la decisione del critico col piano della razionalità. Come per esem­pio: “Si leggono questi versi in modo giusto quando si reagisce ad essi con un sentimento di orrore” e si possono addurre delle “ragion” per questa scelta (quelle che prima abbiamo visto introdotte come conoscenze che guidano la decisione del critico), quali certe considerazioni storico-filologiche sul significato di al­cune parole nell’ambiente linguistico in cui il poeta operava, o certi confronti con altri passi inequivoci dello stesso poeta, ecc.

 Stevenson,- insomma, ha timore di un piano a-razionale, a-fattuale che si rivela, o potrebbe rivelarsi nel discorso del cri­tico, dell’arbitrio cui talora sembrano affidate le sue argomenta­zioni. “Dobbiamo essere doppiamente sicuri che gli aspetti extra­scientifici della critica siano liberi da implicazioni caotiche. Esse renderebbero impossibile la critica riflessiva e ci costringerebbero ad affermare, per esempio, che l’interpretazione e la valutazione dipendono dal capriccio e da un’intuizione che sfida le prove intersoggettive e quindi è praticamente equivalente al capriccio; e per queste ragioni dovremmo allora considerare la possibilità di respingerla”.

Anche in questo caso si opera, come si è visto, su una realtà già consolidata, su un oggetto già costituito nella cultura, che solo si cerca di fondare su ragioni che siano, negli intenti del­l’autore, “razionali”, fondate su fatti. Ciò che desta maggior­mente interesse, nella riflessione di Stevenson, sono proprio i tentativi, i procedimenti di analisi del discorso critico, i quali possono essere colti anche separatamente dal contesto in cui sono compiuti e utilizzati. Il riconoscimento del carattere impe­rativo di ogni proposizione critica che così impone una deter­minata qualità, un determinato valore, ne è forse il portato più fecondo.

 Arte, sociologia e psicologia

 Abbiamo notato sin qui il frequente distacco della riflessione estetica dalla diretta esperienza delle arti contemporanee; e come anzi  essa fosse nutrita da una concezione classica e accademica dell’arte, e, quindi, come di quella concezione fossero accettati tutti i presupposti, gli ordinamenti, i valori.

 E così in parte accade pure nei pochi episodi che andremo ancora esaminando. Ma, sia per il metodo stesso che questi studiosi venivano assumendo (metodi di rilevamenti obiettivi, scientifici, nel caso del socio­logo Hauser, o dello psicologo Arnheim), sia per una conna­turata attenzione al presente (come nel caso di Adorno), gli avvenimenti della contemporaneità, non appena siano osservati, tendono a scuotere profondamente le teorie, che sono messe talora in scacco, sia pure con modalità diversissime, e addirittura sconvolte e rese mute.

 Per compiere il suo lavoro che mira a configurare una “inter­pretazione sociologica delle creazioni culturali”, Hauser è co­stretto, come al solito, a presupporre l’oggettività artistica già formata e conclusa. Essa c’è, le opere d’arte ci sono, e sono “altezze inaccessibili”, polisemiche, sono provocazioni cui ri­spondiamo donando loro un senso. E il senso che Hauser propone è quello della visione sociologica, la cui storicità e provviso­rietà non è però celata, anche se essa può far maturare il giudizio, scoprire aspetti nuovi, pur fra le sue limitazioni e le sue insuf­ficienze.

 Hauser insiste, d’altronde, sull’irriducibilità dell’arte alla sociologia, anzi sulla essenziale divaricazione fra di esse, a un certo livello di osservazione. La questione del valore artistico sfugge all’indagine sociologica: “i momenti più importanti per la formazione dell’opera non sono affatto sempre identici a quelli artisticamente più efficaci e più validi”. La sociologia può, tutt’al più, ricondurre ad un’origine comune gli elementi di una data visione del mondo contenuti in un’opera d’arte, ma quando si tratta della qualità di una realizzazione artistica, tutto dipende dalla configurazione e dal rapporto reciproco di questi elementi, da una considerazione diversa da quella sociologica, insomma, e propriamente formale, o meglio, e più generalmente, estetica, In un movimento artistico, un artista può assumere una posizione chiave dal punto di vista sociologico, e tuttavia essere di secondo o di terz’ordine. Sarebbe grave, dichiara Hauser, rendere la qualità artistica o il talento artistico dipendenti da questioni economiche. Comunque l’opera d’arte, e specialmente l’opera d’arte « autentica », riconduce con un giro più o meno largo alla realtà stessa. « La sua grandezza consiste in una interpretazione della vita che ci aiuta a dominare meglio lo stato caotico delle cose e a ricavare dall’esistenza un senso migliore, più impegnativo e più sicuro ». E questo giustifica l’intervento dell’indagine sociologica, che si propone quindi un compito esegetico, un affiancamento del discorso artistico, una collocazione della storia dell’arte in un contesto più ampio che non quello meramente formale.

 L’arte considerata da Hauser è quella stessa che si è via via depositata nella cultura del nostro secolo, che è sistemata in storie, enciclopedie, saggi: è dunque la nozione comune di arte, intesa nella sua accezione più vasta, anche se rimeditata e rivista alla luce di nozioni estetiche di provenienza eclettica. Una considerazione critica dei risultati del lavoro di Hauser esula dal fine che ci siamo proposti: tuttavia non possiamo non notare un momento particolarmente significa­tivo nell’iter della riflessione di Hauser sulle arti; quello in cui la sua immagine dell’arte e della sua storia si scontra con le esperienze artistiche contemporanee (che, a differenza di molti estetologi, egli mostra di conoscere bene) e con quello che egli dice “il tramonto dell’arte”. Il fenomeno di un’ “arte disso­ciata”, che non comunica più “alcuna esperienza comunitaria” è connesso, secondo Hauser, con il decadere della borghesia, e questo a partire dal taedium vitae del Romanticismo, dallo stra­niamento dei simbolisti fino alla repulsione nei confronti della vita espresso dagli esistenzialisti; tutti sintomi dell’acuirsi della protesta contro le condizioni di esistenza della nuova epoca “che strappava le forme di vita e i rapporti di produzione dall’equilibrio di soggettività e obiettività”. Ma è “alla fine degli anni sessanta” che la crisi dell’arte, afferma Hauser, raggiunge il suo culmine. “Nessuno crede più all’opera d’arte quale portatrice di un mes­saggio valido o preparatrice di un futuro ricco di promesse”. Gli artisti disperano dell’arte e “ne intravvedono la fine” non soltanto “perché il pubblico è incapace di giudicarli retta­mente”, ma anche perché la produzione e il consumo dell’arte sono forme d’espressione della tecnologia, manipolate dall’econo­mia di mercato. Proclamando la fine dell’arte, gli artisti “dicono la propria situazione”, rappresentano la loro inutilità promuovendo un oggetto qualsiasi ad opera d’arte.

Ma le constatazioni di Hauser, il suo rilevamento della situa­zione dell’arte contemporanea, della sua produzione ma anche delle sue teorie connesse con la profonda crisi dell’ideologia borghese, sono bilanciate da una speranza. L’arte, in mancanza dei suoi criteri già univoci e a seguito della perdita della funzionalità reci­proca delle creazioni culturali, è diventata indefinibile. È vero che sono andati perduti i criteri del suo valore, non si sa più se l’arte abbia a che fare con la realtà o con la finzione, che cosa possa rendere un artefatto opera d’arte (anche gli “artisti” or­mai rinunciano ad essere considerati tali). Ma la prospettiva para­dossale, così caratteristica per la concezione odierna dell’arte, secondo cui è “arte” tutto ciò che viene ritenuto tale, “può significare tanto la fine dell’arte quanto l’inizio di un’idea dell’artistico completamente nuova”.

 Ogni previsione è discutibile. In una società che muta, anche la forma dell’arte è costretta a mutare: “ma per quanto decisivi possano essere i mutamenti sociali, l’arte anche se trasformata, può se­guitare ad esistere”. La conclusione, d’altronde, è assai acuta, e nello spirito di molti atteggiamenti contemporanei: “anche gli esempi — osserva Hauser – più astrusi e più estremi dell’esercizio che si suole chiamare anti-arte rientrano ancora nello sviluppo la cui legittimità artistica, con tutte le sue insufficienze, è fuori discussion”.

 Similmente avviene, seppure in modo meno evidente, in un altro approccio non filosofico (dovremmo dire scientifico?) alle arti e alla loro funzione. Voliamo dire delle opere che uno psicologo, R. Arnheim, ha dedicato all’arte. Anche in questo caso ci troviamo dinanzi ad un accoglimento di tutto il bagaglio tradizionale concernente le arti, osservate dal punto di vista generalizzato della percezione visiva, ciò che costringe a elevare al rango di superiori modelli le opere d’arte « consacrate” dalla cultura, provviste insomma di uno speciale valore, e a considerare scientificamente tutta una serie di fatti psicologici il cui ambito, anche se non vien detto, è delimitato idealmente proprio da quei modelli. Si indaga così l’intelligenza della percezione visiva, la rappresentazione in connessione con simboli e segni, la possibilità dell’ “educazione artistica”. E sempre sottolineando, tuttavia, che “non è buona strategia applicare alla sensibilità percettiva l’etichetta di artistica o estetica, poiché ciò significa portarla ad un campo privilegiato, riservato ai talenti ed alle aspirazioni dello specialista”.

 Lo studio psicologico di quello che Arnheim chiama “il pensiero visuale” si estende oltre il territorio dell’arte, alla “capacità di vedere le forme visive come immagini dei patterns di forze che sottendono la nostra esistenza; il funzionamento della mente, del corpo o delle macchine, la struttura della società e delle idee”. D’altronde una sua definizione dell’arte e dell’artista Arnheim l’aveva già data: “l’essenza stessa dell’arte è l’unità dell’idea e della realizzazione materiale”; “ciò che conta è che l’artista sia quell’individuo per cui l’esistenza è la manifestazione della vita e della morte, dell’amore e della violenza, dell’armonia e della disarmonia, dell’ordine e del disordine, in tutto ciò che egli fa, vede ed è; egli dovrebbe essere incapace di manovrare le forze visuali della forma e del colore se non a patto di espri­mere attraverso di esse il comportamento di queste forze domi­natrici”.

Ma il disagio prodotto dal sistema delle arti, dalla gerarchia delle arti, dal dominio delle “arti belle”, si rende a un certo punto evidente e penetra la riflessione di Arnheim mettendone in questione le vecchie e consolidate certezze; e proprio dietro la sollecitazione delle esperienze artistiche contemporanee. L’arte, afferma Arnheim, deve essere liberata dal suo “improduttivo isolamento”, essa, in questa prospettiva, insomma, non deve essere considerata come qualcosa di così eccezionale, “le opere d’arte non sono tutta l’arte”. Gli artisti del nostro tempo – prosegue Arnheim – “hanno fatto molta strada nel rendere inappli­cabili le vecchie categorie sostituendo alle opere tradizionali del pennello e del cesello oggetti e disposizioni che, per poter tro­vare un loro luogo, devono immergersi nell’ambiente della vita quotidiana. Un passo di più, e l’ambiente configurato di tutta l’esistenza umana diventa lo scopo primario dell’arte”.

 Adorno: l’arte e la crisi

 Se i filosofi e gli estetologi del nostro secolo, così come abbiamo visto, hanno quasi sempre ignorato l’avanguardia artistica, le sue asserzioni, le sue esposizioni (i suoi modi di mostrarsi), la riflessione di Adorno muove proprio dai temi che l’avanguardia storica andava presentando, dai problemi che essa poneva e aveva posto. Non per niente Adorno, non ancora trentenne, filosofo e studioso di Husserl, dal 1931 si dedica regolarmente alla musica: ma sotto la guida di Alban Berg, il compositore austriaco profondamente legato a Schönberg, e che aveva aderito da quasi un decennio alla tecnica dodecafonica. L’immersione di Adorno nel clima dell’avanguardia “matura” segna incisivamente la sua riflessione, non solo estetica. La critica dell’artisticità professata oscuramente (ma talora anche dichiaratamente) dai movimenti moderni si riflette infatti nella totalità della sua opera: avviene insomma un movimento contrario e opposto a quello che sin qui abbiamo notato nei filosofi che si interessavano all’arte. Non ci troviamo più di fronte a un processo che dalla filosofia “scende” verso l’arte, cercandole una collocazione sistematica, dandone una ricostruzione e una in­terpretazione accettabile nell’ambito del pensiero borghese (del vecchio sistema), ma dinanzi ad una testimonianza diretta e au­tentica che dall’esperienza estetica, dalla sua singolarità, dalla sua soggettività, risale a informare una visione filosofica del mondo.

  E, infatti, l’anno seguente alla sua iniziazione dodecafo­nica, che s’innestava sui suoi interessi musicali giovanili, Adorno pubblica un saggio Sulla posizione della musica nella realtà sociale, proprio mentre, attraverso Horkheimer, entra in contatto con l’Institut fur Sozialforschung di Francoforte. La singolarità, l’estra­neità della musica di Schönberg e Berg incisero fondamentalmente sul pensiero adorniano. Da quel tempo le sue opere daranno sempre ampio spazio, quando non vi saranno totalmente dedicate, alla riflessione sull’arte. L’opera d’arte viene intesa come diversa, come messa in crisi del mondo, come sottrazione, come opposto della comoda integrazione, come insensatezza. L’ultima opera di Adorno, d’altronde, incompiuta e postuma, è proprio una den­sissima Teoria estetica.

 È evidente che, movendo da queste premesse ideali, impre­gnato di queste atmosfere, Adorno oppone, in generale, ciò che è specifico, individuale, soggettivo, alle ideologie di massa che, mentre promettono una ingannevole liberazione, dispensano servitù e tirannia. L’avanguardia è dunque l’ultima spiaggia nella quale si può ritrovare una difesa contro l’integrazione, e per la libertà della persona, già soggetto della società borghese im­prenditoriale, oppressa e annullata ora dall’organizzazione capita­listica, che tende a coinvolgere gli individui in processi che li privano della loro iniziativa. Un sentimento nostalgico verso la vecchia società liberale è presente costantemente nel pensiero di Adorno, così come è costante la sua opposizione alla tecnocrazia, al sacrificio dell’Io alla ”grazia” della collettività. L’arte quindi diventa un fatto sociale, assume un rilievo sociale a causa della sua “contrapposizione alla società”, in quanto insomma “arte autonoma”; “cristallizzandosi in sé come fatto a sé stante invece di accondiscendere a norme sociali esistenti e di qualificarsi come ‘ socialmente necessaria ‘, essa critica la società mediante il suo semplice esistere, disapprovato dai puritani di tutte le confes­sioni”.

 Se innanzi, come si è visto, il rifiuto dell’avanguardia e l’acco­glimento delle nozioni tradizionali erano comuni nella riflessione estetica, in questo caso il piano dell’arte è costruito proprio con­figurandolo in generale sotto il segno dell’avanguardia, e quindi sotto il segno della separazione e della differenza. L’arte, infatti, che è una forza produttiva ma pura – autonoma e non eteronoma come quella utilizzata dall’industria -, “è obbiettivamente l’imma­gine rovescia della produttività incatenata… L’arte si mantiene in vita unicamente grazie alla sua forza sociale di resistenza”. Il suo contributo alla società consiste, appunto, in una resistenza, non in una comunione; “niente di sociale nell’arte è immediata­mente sociale”.

 Ogni opera d’arte autentica è intrinsecamente rivoluzionaria (anche in Adorno compare dunque il valore: l’auten­ticità s’identifica con la rivoluzionarietà “intrinseca”).

 L’arte è critica della società, anche se, come spesso avviene, la società cerca, talora riuscendovi, di elidere la critica assimilando la rivo­luzione e il dissenso: “Le opere sogliono agire criticamente – dice Adorno – nell’era del loro manifestarsi; più tardi vengono neutralizzate… Il prezzo sociale dell’autonomia estetica è la neu­tralizzazione. Ma una volta che le opere d’arte giacciono sepolte nel pantheon dei beni culturali, sono mutilate anche esse stesse, del loro contenuto di verità”. Per esempio, il surrealismo elevò la sua protesta contro la feticizzazione dell’arte, si sottrasse alle regole del gioco, per essere poi ricuperato e bellamente onorato, riconquistato dalla moda, reinserito insomma nel sistema. Per­sino la pittura astratta supera il rifiuto iniziale e va a decorare “le pareti del nuovo benessere”. La qualità offensiva, indivi­duale, rivoluzionaria dell’arte si appiattisce in conformismo col tempo: l’acre avanguardia tende a essere ricuperata, a diventare piacevole e affabile compagna del sistema, a decadere in Kitsch, a confinarsi nell’eteronomia.

 Da questo punto di vista, all’arte autentica e rivoluzionaria (seppure spesso temporaneamente rivoluzionaria) si affianca l’arte di consumo, quella prodotta per il mercato culturale, l’industria, insomma, della cultura, Wilde, D’Annunzio, Maeterlinck, e così via. “La pacchianeria non è – dice Adorno -, come vorrebbe la fede nella cultura, semplice prodotto di scarto dell’arte… bensì se ne sta in lei spiando il continuo ritornare delle occasioni di saltar fuori dall’arte per venire in primo piano”. È un veleno mescolato a tutta l’arte questa categoria del volgare, del plebeo, dell’intrattenimento.

 L’industria della cultura è potente e inesorabile: non si adatta nemmeno alle reazioni dei “clienti”, le inventa: essa è modellata sulla regressione mimetica, fa apparire come già esistente l’intesa che mira a creare, il suo prodotto non è uno stimolo, ma un modello per reazioni a stimoli inesistenti. ”Di qui, nel film, l’ispirato titolo musicale, il linguaggio insulso e infantile, l’ammic­cante popolarità. Il tono di ogni film è quello della strega che somministra il cibo ai piccoli che intende ammaliare o divorare, con la raccapricciante litania: ‘Buona la minestrina, ti piace la minestrina? Ti farà tanto, tanto bene’. Nell’arte questo incan­tesimo del fuoco è stato inventato da Wagner,  le cui intimità linguistiche e droghe musicali si degustano – per così dire -da sé”.

 È evidente, anche in queste ultime parole, che risalgono al ’51, la chiara messa in rilievo di un fenomeno che continua ancora oggi, quando i mezzi distruttivi apprestati dalle avanguar­die storiche sono utilizzati proficuamente dalla “strega” che rappresenta le comunicazioni “artistiche” di massa.

 La teoria del pensiero estetico di Adorno non si presenta come valida per sempre, ma nasce in una con­dizione, si forma in un tempo e solamente per esso. La teoria è una teoria che vive nel presente, lo interpreta e gli dà senso, ne riceve senso, non è una volta per tutte, può degradarsi proprio come si degradano le opere d’arte.

 “Ciò che dicono le opere attraverso la configurazione dei loro elementi significa, in epoche diverse, cose obiettivamente diverse, e ciò in definitiva ha conseguenze sul loro contenuto di verità. Le opere possono diven­tare ininterpretabili, possono ammutolire, spesso diventano brutte… Il passato ci dà sempre opere meno belle”. L’arte, in generale, è vista questa volta attraverso la griglia nullificante delle asserzioni dell’arte contemporanea, è vista dunque nel suo movimento anali­tico, nel suo tendere verso la sua notte, verso “il nero”.

 L’arte oggi è arte radicale, “arte cupa, col nero come colore di fondo”. Nell’impoverimento dei mezzi che l’arte preannuncia, nell’ideale ossessivo del nero, si impoverisce il frutto del poetare, del dipingere, del comporre: “le arti più progredite immettono un’energia vitale in ciò che si trova ai limiti dell’ammutolimento”.

 È la tesi della fine dell’arte, che si ripete da quando è comin­ciata l’arte moderna e che, come è noto, trova le sue radici in Hegel.

 Ma, nonostante la moda dell’argomento, Adorno rifiuta di accoglierlo, cosi come spesso è presentato nella cultura contempo­ranea. Questo, forse, è uno dei punti di maggiore tensione dell’este­tica adorniana. Fin dai tempi di Hegel, egli dice, il fare profezie sulla fine dell’arte costituì piuttosto una componente della filosofia della cultura che non dell’esperienza artistica. Seppure l’arte incor­pora la sua negazione, il suo “nero”, il suo venir meno, ciò di­venta la sua nuova qualità, la rappresentazione della sua capacità di volgersi contro se stessa, contro le imposizioni del dominio è indice di libertà e di protesta.

 L’arte riflette su di sé, esamina le sue strutture teoriche, il suo principio come i suoi principi: “L’autoriflessione dell’arte raggiunge il punto in cui l’arte stessa principia e si concretizza in lei”. I confini dell’arte sono resi visi­bili, in qualche modo, ma non sono superabili: anche quando l’arte, per protesta, si atteggia come qualcosa di indefinitamente li­bero, resta non libera; essa resiste (questo è il suo contegno adeguato) con “gli occhi chiusi e i denti serrati”. Nel suo tra­monto, nella sua cosiddetta fine, nella negazione di sé, l’arte deve essere “conservata per altri tempi che non siano questi bui”. De­ve, se mai, fermarsi e tacere “piuttosto che passare al nemico e accorrere in aiuto di uno sviluppo che equivale ad inquadrarsi nel vigente in omaggio al suo strapotere”. La fine dell’arte non è legittimata: la sua mancanza di funzione, il suo continuo sot­trarsi, la pone in salvo. L’arte, è vero, cerca scampo nella nega­zione di se stessa, ma vuole sopravvivere mediante la propria morte. È un momento di errore, ma in un leggendario futuro mi­gliore il suo ricordo non dovrebbe essere rinnegato.

 L’arte trapassa in antiarte per­ché si rifiuta al consumo, e tiene fede al proprio concetto. È ovvio che di fronte al buio del presente l’autentica arte del passato è costretta a camuffarsi, ad attendere tempi migliori. L’arte attuale la smentisce, ne vela il “contenuto di verità”, ed essa potrà tornare ad aprirsi solo quando siano mutate le condizioni per cui è stata costretta al silenzio.” Incalcolabili giacenze di opere del passato dimostrano la propria immanente ina­deguatezza senza che le creazioni artistiche colpite da tale giudizio siano state inadeguate nella loro situazione  rispetto alla coscienza della loro epoca”.

 Negli interstizi di queste, feconde, e mimetiche, rilevazioni sul terreno dell’arte e della cultura contemporanea, Adorno costruisce in qualche modo una sua estetica, con un’attenzione sempre però mediata dai motivi attuali cui abbiamo accennato, dedicata ai temi della forma, dell’espressione, della mimesi, dell’autonomia e della libertà dell’arte, del suo valore critico. Basterà soffermarsi un istante sul problema della forma, intesa come “brusca antitesi dell’ arte nei confronti della vita empirica” ; ma quella che a prima vista potrebbe sembrare una definizione, in generale, slitta subito verso un senso diverso e attuale.

La vita empirica è quella da cui l’arte si ritira perché in essa il suo diritto all’esistenza “è divenuto incerto”.

 La forma è la coerenza (per quanto antagonistica e fram­mentaria) dei prodotti di artificio, per cui ogni artefatto riuscito si separa dal puramente esistente. La forma converge con la critica, e mediante ciò “annienta le opere d’arte del passato”. Esempio tipico di un uso nuovo e diverso, attualizzato e stravolto, di una nozione dell’estetica tradizionale, di come la forma dell’arte, la sua “unità estetica” (che per prima rese possibile l’opera d’arte come un intero e la sua autonomia), possa negarsi in essa, dissociar­si, magari solo per criticare la sua essenza affermativa.

 L’estetica filosofica, secondo Adorno, quella tradizionale, è così invecchiata. Le teorie estetiche, prodotte sin dalla metà del secolo scorso, sono mere esercitazioni accademiche, spesso nem­meno eseguite fino in fondo, coinvolte nell’impossibilità di princi­pio di rivelare l’essenza dell’arte in generale mediante un sistema di categorie filosofiche.  “L’estetica filosofica – dice Adorno  finì nella fatale alter­nativa fra stupida e triviale universalità da un lato, e giudizi arbi­trari per di più desunti da idee convenzionali dall’altro”.

 Ora, non è possibile trattare di estetica senza aderire all’idea di concretezza che non consente di allontanarsi, nel trattare d’arte, dai fenomeni determinanti. L’universalità, cui tende l’estetica filosofica, è nemica di ciò cui l’oggetto artistico costringe a interessarsi: essa è inade­guata nei confronti delle opere d’arte proprio perché tende a “tran­seunti valori di eternità”; e diverge in anticipo da ciò che tratta; è divenuta, per esempio, inconciliabile con l’arte più progredita che “non tollera più l’atteggiamento contemplativo”.

D’altronde Kant e Hegel, afferma Adorno, furono gli ultimi (ma forse non furono gli ultimi, aggiungeremo noi) che, « detto brutalmente », poterono scrivere di estetica in grande stile senza capire niente d’arte.

  Le grandi estetiche filosofiche potevano con­cordare con l’arte finché l’arte si offriva loro come conforme all’uni­versale, alle forme dello spirito, allo spirito, insomma, della filosofia stessa. E  ”il fatto che in filosofia ed in arte regnasse il mede­simo spirito permise alla filosofia di trattare dell’arte in maniera sostanziale senza rimettersi alle opere”: inoltre l’estetica filoso­fica disturba da un lato l’arte borghese di consumo, e , dall’altro, si rende inconciliabile con l’arte di avanguardia, quindi con le due mani­festazioni concrete dell’arte del nostro tempo. Nel primo caso, essa è considerata superflua perché, ovviamente, disturba “il piacere domenicale” che è divenuta l’arte, complemento del “tempo libe­ro della borghese vita quotidiana”. Nell’altro perché il suo porre la possibilità dell’arte “in generale” non si concilia col presentarsi dell’arte come antiarte, tale che, insomma, si rifiuta al consumo, e ostenta il suo disagio nei confronti di se stessa, il disagio della sua fine.

 Ma l’estetica non è superata: è giunta alla sua ora: l’arte non ha più alcun bisogno di essa, della sua difesa d’ufficio alle spalle. E tuttavia ne ha ancora bisogno, poiché le opere stesse la richiedono. “Il conte­nuto di verità di un’opera ha bisogno della filosofia”. Soltanto in esso la filosofia converge con l’arte, e si esprime in essa. Il conte­nuto di verità delle opere non può, infatti, che operare il dissol­vimento delle categorie estetiche correnti; gli artisti sono costretti ormai alla “riflessione permanente”:  mentre in filosofia l’estetica passa di moda, tanto più gli artisti ne avvertono la necessità.

 Nella situazione descritta da Adorno, potremmo concludere con qualche audacia interpretativa, l’arte si converte nella filosofia, così come la filosofia si converte nell’arte, trovandovi la propria morte.

 Nel pensiero di Adorno, oltre una fondamentale messa in questione della riflessione estetica tradizionale (di quello che abbiamo innanzi detto “il sistema dell’estetica”), troviamo anche una acutissima analisi della situazione attuale dell’arte come consapevolezza della propria sorte, come consapevolezza di morte e di “nero”, come negatività che proietta la sua ombra, la sua “nerezza”, sull’arte del passato, rilevandone l’immobilità, la secchezza, l’abbandono, la chiusura formale. Ma, poiché anche oggi i problemi non sono chiusi e risolti (la filosofia generalizzante celebra anch’essa la propria fine e non può estendere i suoi idoli al presente come al passato), l’arte del passato, le sue prerogative e i suoi pregi, non sono perduti, sono come messi da parte, conservati per un “leggendario futuro migliore”, in cui la sua forma non “diverrebbe nulla”, per cui essa dovrebbe disperatamente resistere, nascosta, ibernata, conservata per altri tempi, per legittimare, anche nei confronti di essi, la sua mancanza di funzione. La celatezza dell’arte, oggi, il suo rifiuto, è dovuto al non voler esser coinvolta, alla strenua necessità del negativo che essa rappresenta nei confronti dell’appropriazione commerciale, al sabotaggio. Anche se essa è sempre sabotaggio, sempre libera e non libera. Però il nostro tempo ne è insieme terribile testimonianza e pervicace teoria, condizione della sua comprensione nel presente come nel sempre più incomprensibile passato, della sua continua impenetrabilità nei confronti della realtà empirica.

  ( Conclusioni  dell’Introduzione a L’estetica contemporanea di Ermanno Migliorini)

Versione integrale

LE ARTI CONTRO L’ESTETICA    

 1.   La fine dell’arte

Abbiamo visto in precedenza come per Hegel, lo Hegel dell’Enciclopedia, l’arte “ha il suo futuro nella religione”, e come  “il contenuto limitato dell’idea trapassa in sé e per sé nella universalità”: è un momento quindi dell’ascesa al concetto della filosofia (intesa come unità di arte e religione), all’Idea che pensa se stessa. Questo nell’ordine ideale. Ma nelle Lezioni di estetica, la fine dell’arte romantica è qualcosa che, seppure mima e ripete il movimento che abbiamo visto accennato nell’Enciclopedia, è intesa come ben reale, calata nel tempo, e con riferimenti precisi a cose e persone. La vecchia disputa, insomma, su come si debba interpretare questo celebre tema del pensiero hegeliano, può essere risolta tenendo separati i piani della riflessione: e, a parte ogni altra considerazione, col riconoscere come, nelle Lezioni, si ha proprio talora una traduzione in volgare della dottrina dell’Enciclopedia. Di fatto, Hegel si era reso ben conto della crisi che travagliava l’arte del suo tempo, della sua mancanza di motivazioni, della sua, com’egli si esprime, “mancanza di serietà”, che è mancanza di fede: l’artista è ormai tabula rasa “sia nei riguardi della materia, della forma che della loro produzione”, e nessun contenuto, nessuna forma è più immediatamente identica con l’intimità, con  l’inconsapevole essenza sostanziale dell’artista: ogni materia (poiché egli non può operare seriamente) gli è indifferente ed esterna. Ed è inutile che gli artisti cerchino di voler riconquistare, in modo sostanziale, le concezioni del passato, l’unità perduta con la fede e col popolo, per esempio col farsi cattolici, “come recentemente molti hanno fatto” (trasparente allusione ai Nazareni, gli artisti protestanti che, convertitisi, avevano dato vita in quegli anni a una comunità a Roma). Tutto ciò comporta o una concentrazione nella soggettività, un “calarsi nel proprio petto”, nell’interno o un volgersi all’esterno. Ma quel che appare esteriormente non può più esprimere l’interiorità; e allora all’arte resta o di identificarsi con gli oggetti (fiori, alberi, utensili domestici) o di rendere solo l’animo privo di esteriorità, privo di oggetti e di forme, di divenire un riflesso dell’essere in sé dell’animo. Nel definire, dall’interno, una situazione dell’arte del suo tempo, Hegel aveva disegnato un paradigma che, forse casualmente, può essere utile per illustrare il percorso dell’arte contemporanea.

E infatti. L’arte accademica ottocentesca aveva raggiunto un tale livello di “non serietà” da poter imitare, nell’indifferenza del sostanziale, tutti gli stili. Dai preraffaelliti ai neogotici, dal neoclassicismo all’eclettismo, e in seguito fino alle rievocazioni archeologiche, alla presunta autenticità del verismo, alle arcane visioni del simbolismo, tutte costruzioni intellettuali, “artistiche”, l’arte non esprimeva più l’anima del popolo, come aveva affermato Hegel, ma conduceva un discorso su se stessa, sulla sua storia, su quella che sembrava la sua destinazione culturale, comunque una disposizione non libera, ma imposta o scelta dall’esterno, per la supposta adeguatezza a un clima. Le arti cominciano allora -nella perduta serietà – a scavare in se stesse, ad autodefinirsi nella definizione delle loro tecniche come dei loro significati. Una fondamentale retroversione le corrode: esse si volgono entro se stesse per compiere un’analisi che, riducendo gli elementi di cui, per esempio, l’arte accademica era ricchissima, le rendono via via sempre più povere, e sino all’annichilazione attuale. È cosi che, sempre più di frequente, l’opera d’arte, l’evento artistico, si presenta non più come oggettività valevole, fruibile nella maniera tradizionale, appunto, propria dell’opera d’arte, ma si offre nella sua traducibilità in proposizioni, e in proposizioni sull’arte in generale. Gli stessi “artisti” dichiarano questo, privilegiano la loro teoria (le poetiche, le proposizioni, i giudizi) nei confronti delle opere, che diventano una specie di epifenomeno del “concetto”; mentre esse spesso sono dimenticate e perdute, assunte ed esistenti solo nella proposizione che le intenziona.

 La storia è nota, non staremo a ripeterla. Ma c’è una cosa che ci preme sottolineare: che contemporaneamente alle estetiche che siamo andati esponendo, innanzi, per campioni significativi, a ”quelle” estetiche filosofiche, si venivano formando, mediante atti, esibizioni, eventi, traducibili, come si è detto, per stipulazione in discorso, altre  “estetiche”, opposte, consapevoli attrici dell’arte, operanti nell’arte, di cui le estetiche filosofiche si erano fatte e si facevano beffe, quanto ne rimanevano astratte e lontane e le ignoravano. Eppure, sappiamo bene chi ha “vinto”,  chi ha ottenuto un tenebroso successo, che ha imposto il “nero” di cui parlava Adorno (l’unico pensatore che , nella nostra esposizione, si è accorto di ciò che gli accadeva d’intorno, anche se non ha avuto il coraggio di trarne le ultime conseguenze). Oggi è difficile discorrere d’arte, perché l’arte ha fatto e fa di tutto per negarsi, per dichiarare la propria inesistenza. In questo consiste la sua rilevanza estetica. L’estetica filosofica del nostro secolo si è affaticata a interpretare l’arte del passato e i suoi moventi, la sua chiusura in sistema, accogliendone senza discuterla, senza porne in questione né osservarne in trasparenza, la controversa problematica, gli elementi che sembrava la costituissero. Ha ignorato o sottovalutato o male interpretato quelli che erano i segnali che le arti inviavano all’estetica filosofica: quando essi  erano presi in qualche considerazione venivano trasvalutati e falsati, ricondotti all’ordine, ignorati nella loro carica eversiva. Mentre al di sotto si faceva il vuoto, l’estetica accademica continuava a parlare di un’arte che ormai era scomparsa, o si era trasformata problematicamente nel suo opposto.

Già con gli impressionisti e specialmente con i pointillistes cominciò a delinearsi una tendenza che doveva apparire irreversibile, nel loro furore di giungere a restituire una “visione esatta”, di afferrare la natura anche mediante il ricorso alle discipline scientifiche della visione. Ma ciò che importa qui, oltre le dichiarazioni teoriche talora straordinariamente lucide di un Seurat, appunto, è lo spostamento dell’asse dell’obiettività, che configura una prensione esatta, l’afferramento della natura, dall’oggetto al soggetto, dalla cosa al meccanismo stesso della visione. Restando fedele al modello dell’oggetto, il mondo dell’arte è rovesciato. Il dipinto, un tempo ben solido nei suoi riferimenti formali a cose e a fatti esistenti, nella sua idolatria della forma, vede ribaltato il suo supposto equilibrio nei confronti del colore, che si trova pressoché unico elemento costruttivo del dipinto, sino alle estreme conseguenze informali di Monet, dopo il 1889. Ma questo non è che un episodio, anche se è l’inizio di un rivolgimento che, nell’arco di un secolo, attraverso improvvise illuminazioni e anticipazioni, e ritorni e riprese, giungerà fino alla situazione attuale.

L’arte si ribella al sistema, s’impossessa del negativo, opera sotto il segno della sottrazione, del rovesciamento, della fuga. Il sistema delle arti, con i suoi sottosistemi di poetiche, di tecniche, di consuetudini, pur continuando apparentemente a restare in vita, a mostrare buona salute nelle sue manifestazioni  ufficiali, è minato da una corrosione interna, da una nascosta (ma non tanto) contestazione, che lo porta in crisi con tutte le sue belle certezze. Perché se sino a un certo punto l’arte rivoluzionaria è rimossa, almeno per alcuni periodi e in alcuni ambienti, è stata insomma tenuta in disparte, in seguito – negli ultimi decenni, per esempio -essa si sostituisce completamente alla “vecchia” arte, che non può che scomparire. Proprio quell’arte che un tempo era detta d’avanguardia (ora si parla di “avanguardie storiche”), nei confronti dell’arte dei musei, delle esposizioni ufficiali, del mercato maggiore, delle committenze pubbliche, qui è considerata essa l’arte, l’arte dei musei, delle esposizioni ufficiali, e così via, essendo il suo rilievo coonestato dalla cultura, universalmente, diventando di fatto rappresentativa del nostro tempo, molteplicità non omogenea di oggetti, di azioni, di scritture, di nominazioni non più incluse materialmente in una classe, come un tempo era, ma libera nelle sue manifestazioni più sorprendenti e imprevedibili. Che l’arte del nostro tempo, come vedremo, è spesso irriconoscibile, non presenta (non costituisce) più nemmeno un oggetto talora, si sostituisce all’estetica e alla filosofia, e non diciamo alla critica. Mentre la critica, sottrattele le sue “ragioni”, quelle che la rendevano complice della costituzione singolare dell’oggettività di valore artistico, avvia significativi e bizzarri tentativi di presentarsi essa stessa come arte.

2.  La ribellione all’estetica       

Ma occorrerà soffermarsi un momento; non per ripercorrere ordinatamente la storia delle arti del nostro tempo, ma per esaminare alcuni casi particolari, e determinanti per la cultura contemporanea, nei quali si sono condotte le operazioni più clamorosamente distruttive nei confronti dell’edificio dell’estetica. Si deve subito premettere che non ci sarà possibile liquidare questi casi come abnormi, come deviazioni da ciò che l’arte “deve” essere, come insomma – e un tempo lo si diceva – “non arte”. Infatti non vale più (se è mai valsa come affermazione teorica) la vecchia abitudine di rifarsi a una definizione dell’arte, o di ricercare una definizione dell’arte, o di far sì come se essa fosse presente nella cultura o nel costume. Uno dei problemi fondamentali dell’estetica, presente sin dalle sue origini, quello relativo alla validità in essa del giudizio singolare piuttosto che del giudizio universale, è stato ormai risolto, anche a livelli non filosofici, privilegiando la singolarità. D’altronde, anche nei grandi filosofi, in Kant per esempio, il giudizio estetico è singolare e soggettivo (anche se ad esso “deve unirsi l’esigenza della validità per ognuno”, e “deve pretendere alla validità soggettiva”): è negato insomma che, stabilito una volta per sempre il concetto di arte (o di bellezza), si possa da esso ricavare un giudizio sulla validità o meno di un singolo oggetto. Di solito è avvenuto che quell’arbitrio (nel senso di mancanza di leggi e regole generali) che era unito potenzialmente a queste dichiarazioni di principio fosse poi mitigato di fatto dalla presenza del grosso edificio delle opere d’arte del passato, così com’era stato costruito, lo sappiamo, in un certo periodo della nostra cultura (ed attraverso quali vicende), e dal ricorso ad una “esigenza” di universalità, che negli empiristi diventava ricorso alla costituzione statisticamente simile della “macchina umana”, sì che, più o meno, quello che era approvato dalla maggioranza doveva essere ciò che era giusto approvare.

Insomma il giudizio estetico – è un celebre esempio di Kant -concerne questa rosa, questa rosa che io guardo e che dichiaro bella, con un giudizio di gusto, quando dico “questa rosa è bella”. Ma non posso dire, rimanendo nell’ambito dell’estetica, che le rose in generale sono belle, che “tutte le rose sono belle” in quanto questo non è più un giudizio estetico, ma un giudizio logico fondato su un giudizio estetico. Anche se poi, come è ovvio, si esigerà la “quantità estetica” dell’universalità, il consenso di ognuno (non si postulerà il consenso di tutti), ricorrendo al “senso comune”, incaricato di rendere universalmente comunicabile il nostro sentimento rispetto ad una data rappresentazione, e senza mediazione di concetti (una “soluzione” come si vede aporetica [come dire incerta, da aporia: problema le cui possibilità di soluzione risultano annullate in partenza dalla contraddizione], e quasi meramente verbale). Tuttavia le conseguenze di questa diffusa posizione teorica sono gravissime. Il giudizio singolare esclude ogni generale premessa, quando è preso di per sé, e, con essa, ogni nozione generale da cui esso possa derivare; esclude, nella fattispecie, il piano dell’artisticità, le nozioni più ampie, e si presenta come inderivato e inderivabile da qualsiasi principio. La validità esclusiva del giudizio singolare elimina di fatto la nozione stessa di arte, ne elide i confini e le immagini, ne distrugge le impalcature teoriche. L’oggetto si trova da solo, senza pregiudizi né appigli teorici, di fronte al giudizio singolo e diretto, che non ha più bisogno di criteri, valido per se stesso, e senza altri ausili. Il giudizio singolare elimina la definizione generale del valore, elimina l’arte.

Proprio in questo punto risiedeva il tallone d’Achille dell’estetica. Nel custodire in sé una potenzialità rivoluzionaria appena sottesa alle rassicuranti protezioni di cui la si era voluta coprire. Anzi era stato proprio il timore di un abbandono della valutazione dell’arte (o del bello) all’arbitrio dei singoli che aveva provocato le prime riflessioni preoccupate su questi argomenti, sin dagli inizi del Settecento, quando la tempesta barocca aveva dissolto la stabilità dei modelli classici. Ora questa debolezza dell’estetica è scoperta, rivelata, beffata. Il giudizio singolare è invocato, impiegato, ostentato, con ironia e provocazione, nella consapevolezza di demolire con esso non solo una maniera di giudicare, ma anche il sistema delle arti nelle sue divisioni, i confini della stessa nozione di arte, tutti gli elementi insomma che una annosa operazione era andata, non senza fatica, riunendo in una prestigiosa struttura, ricorrendo a tutti gli artifici speculativi, nonché alla connivenza di una cultura che, nonostante tutto, si presentava ancora come relativamente omogenea.

 Ma questa omogeneità si perde, fra la fine del secolo scorso e gli inizi del nostro (1900), proprio quando comincia, insomma, la nostra storia. Una ventata di ribellione sconvolge il mondo già apparentemente ordinato delle arti, i loro ideali, il prestigio altissimo delle opere, l’eminenza della figura stessa dell’artista, l’autorità della critica, il rispetto, la venerazione, tradizionali per gli oggetti d’arte e la loro conservazione, la stessa facoltà del bello e dell’arte (o come altro la si volesse chiamare, forma dello spirito, ecc.). Tutto ciò in un mondo dove già avevano operato l’impressionismo e il divisionismo, dove operavano il movimento della Brücke, il fauvisme, il futurismo e il cubismo, l’astrattismo, la dodecafonia, che, variamente, avevano distorto i canoni tradizionali delle arti, della letteratura, della musica, dell’architettura e della scultura (e basta gettare un occhio sulle date per rilevare la straordinaria convergenza di molti episodi di questa rivolta). Tuttavia, i protagonisti del “movimento moderno”, pur nella loro volontà di sconvolgimento di una tradizione che talora giudicavano severamente come da rifiutare, avevano una loro fede nell’arte, sapevano, erano convinti di stare operando per l’arte, a favore dell’arte, entro i confini dell’arte. Si parlava volentieri di “pittura pura”, di “musica pura”. Ma le tensioni che essi avevano sollevato nel loro affannoso e geniale operare non potevano rimanere soffocate all’interno delle opere, sottese ad esse. L’occasione era prossima, bastava che qualcuno facesse un gesto che rompesse i limiti posti dal :”senso comune” di Kant, l’inconsapevole ossequio all’ombra di una tradizione che sempre più impallidiva.

Questo gesto lo fece Duchamp, e fu molto più importante per i destini delle arti nei decenni futuri, e sino a noi, alla situazione attuale, di quanto pensino molti attuali esegeti che, trascurando la forma del discorso duchampiano, ne vanno ricercando le implicazioni misteriche e alchemiche, al modo delle opere d’arte. Perché il senso del gesto di Duchamp ha condizionato e condiziona la storia dell’arte contemporanea. Duchamp si era evidentemente reso conto, nella sua sempre giocosa e disincantata riflessione sull’arte, della fondamentale aporia dell’estetica e della critica tradizionali, del pregiudizio da cui esse muovevano, pregiudizio ovviamente spesso non detto e celato. L’accademia, con le sue generali premesse, era ormai lontana e deprivata di ogni prestigio.

 Solo il giudizio singolare poteva valere, in estetica, come nella critica. Il giudizio di tipo universale era di uso illegittimo: l’oggetto doveva essere riportato solo immediatamente al soggettivo sentimento di piacere o dispiacere. Non si possono dare, teoricamente, regole generali per costruire o giudicare le opere d’arte; la qualità d’arte di un oggetto dipende da un’assunzione che è immotivata e immotivabile. Non si può dire che un oggetto ha valore artistico perché possiede certe qualità: sarebbe un ricorrere a un concetto generale di artisticità. L’estetica, con la costituzione del giudizio che essa implica, con le sue analisi del giudizio, con la sua posizione antiaccademica, con la sua valutazione della creatività, arriva di fatto a sopprimere l’arte, ad annullare il suo oggetto.

Così, nel 1914 (ma negli anni precedenti aveva già fatto qualche tentativo), Duchamp, autore di dipinti tradizionali, e di celebri opere situabili, sia pure non senza controversie, nell’ambito del futurismo, compì il gesto estremo e irreparabile. Prese un oggetto qualsiasi, uno “scolabottiglie”, un oggetto d’uso non provvisto di qualità tradizionalmente artistiche, un oggetto fatto in serie e acquistato in un grande magazzino, e lo nominò opera d’arte, ponendolo in un contesto artistico (il suo studio di artista). Era cosi compiuto l’atto ultimativo nella storia dell’arte contemporanea. Da quel momento, almeno di principio, qualsiasi oggetto del mondo poteva ricevere la qualificazione d’arte, il perimetro sacro della galleria d’arte proiettava il fantasma dell’artisticità, sempre di principio, su qualsiasi cosa vi fosse introdotta con quell’esplicita intenzione. È un’operazione che è stata ripresa molte volte da Duchamp stesso, che nominò opere d’arte, tra l’altro, un attaccapanni, una pala, un orinatoio, un grattacielo, ma anche da altri; ed è oggi pratica quotidiana giustificata ideologicamente nei modi più vari. Ma ciò che può più sorprendere – e invece non dovrebbe – è l’accettazione, e sia pure in un primo tempo diffidente, lenta, meditata, da parte della cultura (non diciamo “soltanto” della critica) di quegli oggetti e di quei procedimenti. Oltre l’uso formalmente ineccepibile del giudizio singolare in fatto di arte, avendovi tolte d’intorno tutte le protezioni e le limitazioni che il costume vi aveva posto a difesa, e che giustificavano, da un certo punto di vista, il gesto di Duchamp, profonde motivazioni storiche debbono sussistere perché la storia dell’arte abbia preso questo cammino. Ora l’arte contemporanea non è solo Duchamp, né è proprietà dei nipotini di Duchamp. Però il fatto che la nostra cultura ha accolto lo scolabottiglie nel novero delle opere d’arte è atto definitivo, che getta una luce particolare e significativa anche su tutto quanto è rimasto.

Lo scolabottiglie di Duchamp, quello scolabottiglie, non esiste più in originale. È andato perduto, dimenticato, distrutto. Duchamp non ci teneva poi tanto. Ne restano delle fotografie e delle sciagurate “copie” recenti. Perché quello che doveva emergere dalla presentazione dello scolabottiglie come arte era la sua mancanza di esclusività (l’attacco all’estetica tradizionale, all’opera d’arte “unica”, continua): un qualsiasi scolabottiglie vale quello su cui Duchamp fece la sua operazione, un qualsiasi orinatoio vale quello esposto nella mostra di New York nel 1917. E infatti bastava che quegli oggetti fossero scelti da un artista e offerti allo sguardo del pubblico in un ambiente adatto (la galleria) e in una mira artistica: evidente parodia della “creazione” e della “fruizione” care alla vecchia estetica. Le intenzioni di Duchamp, d’altronde, erano, nella loro moquerie dadaista, assai più gravi. Erano dirette verso una “demistificazione” dell’arte, verso la sua negazione: “Lo scolabottiglie dice: l’arte è di latta. L’orinatoio dice: l’arte è un imbroglio”. Di fatto, per Duchamp, l’arte è morta, l’arte è nulla. Afferma un testimone di quei tempi, H. Richter: “Con l’aiuto della logica ci siamo così sbarazzati di un’illusione. Al posto di questa è subentrato un vuoto che non ha qualità né etiche né morali. È la proclamazione, né cinica né dispiaciuta, del nulla… Duchamp però, allo scopo di evitare un atteggiamento negativo nei confronti dell’arte, definisce la sua posizione non contraria all’arte, bensì al di fuori di questa”.

 

3. La riduzione artistica

L’arte contemporanea procede così, come una precisa contestazione dell’estetica filosofica tradizionale, come suo ironico o drammatico controcanto. Abbiamo visto in precedenza, nella rassegna degli estetologi, come essi, in generale, fossero distaccati da ciò che accadeva sotto i loro occhi, o anche come le loro interpretazioni non riuscissero a prevedere quali strade seguisse quel movimento che a loro, certo, poteva apparire come costituito da episodi abnormi, devianti, da non prendere in considerazione perché appunto “non seri”. E invece: dopo qualche periodo d’incertezza, dopo la fioritura del surrealismo (che però era legato storicamente a Dada), dopo qualche supposto ritorno all’ordine, la furia riduttiva ha ripreso il suo corso. Seppure mai aveva lasciato il campo, insinuandosi anche in opere che parrebbero non destare sospetti. Ma noi dobbiamo sempre seguire il nostro filo estetico e non fare storia dell’arte. C’è tuttavia una traccia che congiunge i due argomenti; ed è che ciò che da una parte è affermato, dall’altra è semplicemente negato a parole o coi fatti. In questa chiave non è difficile seguire il percorso delle arti contemporanee, come un continuo sottrarsi al discorso, un continuo ritrarsi e fuggire alle “prese” dell’estetica e della critica. Ad ogni chiusura, ad ogni tentativo di donazione di senso. L’arte come negazione: ma non solo dell’arte, che è cosa vecchia, ma di tutto ciò che può esser detto nei confronti di ciò che è fatto, mostrato, osteso (mostrato). Non appena qualcuno tenta di esplicare, di gettar luce su un evento, la risposta e la pratica si celano e si allontanano verso altre esperienze indicibili e ancor più impenetrabili.

Intanto è scomparsa (è fatta scomparire) la gloriosa nozione di sistema delle arti, perché le arti debordano sin dagli inizi dai loro limiti, invadono altri campi; una consuetudine che si farà via via più frequente fino a rendere inutile e comunque irriconoscibile ogni categoria sistematica, quelle stesse categorie da cui l’Arte aveva cominciato a riconoscere la sua identità. Già: perché l’arte si era riflessa, costituita proprio in quel sistema, e aveva vissuto a lungo all’interno delle griglie teoriche che quello le apprestava. Possiamo, a titolo di esperimento conclusivo, anche cercare di ripercorrere alcuni dei temi trattati dagli estetologi contemporanei alla luce delle materie che essi volevano illuminare, illustrare, sistemare. I risultati sono quelli di mettere in rilievo, nei confronti di essi, la strenua negazione di cui si è detto. Prima però occorrerà soffermarsi sul procedimento.

Si conceda che un teorico dell’estetica, autorevole, elabori una teoria estetica T, in cui manifesti certe idee generali che dovrebbero essere esplicative nei confronti della concezione generale (spesso della definizione) dell’arte. Si potrebbe aspettarci, e storicamente talora è accaduto, che artisti devoti abbiano trasformato in qualche modo la teoria in una poetica e ne abbiano seguito, o abbiano creduto di seguirne, le prescrizioni. Nel nostro secolo, salvo qualche episodio, in fondo marginale, è accaduto il contrario.

I valori affermati in sede filosofica venivano subito disertati in sede di pratica artistica. Così se l’estetica si dava un compito costruttivo, le arti se ne davano subito uno correlativamente negativo. Lasciamo per un istante l’ordine della storia, per considerare come un tutto le teorie artistiche contemporanee. Del sistema delle arti abbiamo già detto, e non è chi non veda nell’arte contemporanea un atteggiamento d’indifferenza o di ostilità nei confronti di esso. Le tendenze dell’arte contemporanea sembrano volte a costruire i mezzi per non poter più essere classificate, in alcun modo. Il dipinto nega (e fino dal tempo di Malevic, nel 1913) di essere un dipinto, presentando al suo posto un quadrato nero, lo scolabottiglie nega di essere una scultura ma un oggetto qualsiasi, la scrittura tende a presentarsi alla maniera delle arti visive, il testo letterario assume la forma della figurazione, quando non accade, come negli happenings, nelle performances, nelle istallazioni, che non vi siano punti di riferimento. Anche il teatro, uno dei media storicamente più assestati, più generali, è costretto ad accogliere le pressanti istanze dissolutive che gli vengono rivolte, ed è costretto ad abbandonare la sua vecchia specificità per identificarsi con la vita stessa.

Ma anche il partito espressivo è contestato. Già i ready-mades, come l’orinatoio, si negavano a ogni espressione, volevano se mai emettere un enunciato teorico nei confronti dell’arte in generale: tutta l’arte contemporanea può essere considerata non espressiva, semmai presentativa. Anche nel caso delle performances, in cui l’ “artista” compie un’azione, l’enfasi non è certo posta nell’espressione dell’artista (nell’espressione di sé), quanto piuttosto nel rito che egli è chiamato a svolgere (come in una funzione religiosa il sacerdote non esprime sé, ma compie un rito). Resta, in qualche caso, un desiderio di comunicazione, è vero, ma anche in questo caso la comunicazione è autoriflessiva, non comunica una verità o un sentimento, una notizia o un segnale. Ricade su se medesima, tautologicamente e riduttivamente, comunica se stessa, comunica il cominicare. In altri casi con l’aiuto di una critica che offre tutta la sua collaborazione, anche teorica, al processo in atto, il testo letterario, la supposta comunicazione, non si offrono all’analisi della loro struttura (e questo è certo un portato delle arti, ma anche una assimilazione della loro pratica da parte della teoria), del loro senso, ma sono accolte, come manifestazioni di qualcos’altro, di qualcosa di più profondo, di disperso, per cui la lettura diventa non donazione di senso, ma rispecchiamento del testo, attraversamento di esso, discoprimento di un altro discorso sotto il visibile e l’udibile, di un’altra parola che vive negli interstizi del verbo quale appare sulla pagina. Non solo, dunque, le arti trovano la loro forza distruttiva nel loro operare, ma sono spesso affiancate da un’attività teorica che coonesta ( coonestare: giustificare un’azione disonesta o scorretta fornendole ragioni e spiegazioni solo in apparenza vere, tali però da farla apparire legittima od onesta) il loro dimostrare, il loro animoso agire. Una teoria che, però, si badi, è venuta dopo, ha preso consapevolezza del processo, e vi si è inserita, con decenni e decenni di ritardo. Se l’analisi strutturalistica del testo, e quella semiologica, affondano le loro radici nel tempo, sino ai recenti successi, e alle relativamente recenti chiarificazioni e teorizzazioni, sì che l’opera ci poteva apparire un ordinato sistema di equilibri rivelati in un miracolo di penetrazione critica che aspirava a giungere fino al luogo dove la poesia inabitava (risiedeva), ora si assiste, e da un punto di vista teorico e critico (sì che una nuova estetica della negazione sta per nascere o è già nata e vitale), alla proposta, contro la struttura testuale, di una “disseminazione” dei sensi, ottenuta attraverso la decostruzione del testo. È il caso, questo (cosi vivo in una parte rilevante della cultura francese), in cui la riduzione, la destrutturazione praticata, programmaticamente, dalle arti contemporanee, ha contagiato la stessa attività teorica, che ne proietta le valenze anche all’indietro sulla storia (con diversa consapevolezza e fiducia, un processo formalmente simile era accennato in Adorno).

Ma la cultura, oltre a questo, che è il suo caso limite, ma certo di maggiore rilevanza, trova, nelle provocazioni delle arti contemporanee, delle difficoltà che ne mettono in dubbio la funzione. Il compito della critica, tradizionalmente, era quello di giudicare, di discernere un’oggettività artistica da un’altra, di addurre ragioni, di motivare il suo giudizio, di porre in relazione le opere e le oggettività superiori (personalità, periodi), togliendo le sue argomentazioni dai repertori materiali dell’arte. Ora tutto questo non le viene più richiesto, o le viene richiesto in un altro modo. Il repertorio tradizionale degli argomenti dell’arte le è stato sottratto, espressioni come forma, colore, armonia, non hanno più senso. Non le si richiede più nemmeno la funzione di mediazione fra l’opera e il pubblico, o anche la mediazione storica fra l’arte d’oggi e quella del passato, prossimo o remoto. Se vuol continuare a vivere deve negare se stessa, in quanto aveva di specifico, deve rinunciare ai valori tradizionali dell’arte e parlare di cose neutrali, dello spazio, del tempo, di relazioni logiche, di tautologia, oppure deve ricorrere ad altre aree valutative, come l’alchimia, per esempio, la psicanalisi, o anche i valori vitali; deve cioè uscire dal terreno che le era proprio e cercare di mantenere in piedi l’impalcatura dell’operazione che le è ancora richiesta riempiendo i vuoti col ricorso imbarazzato ad altro. Ma il gioco è scoperto, e difficile è la sua sopravvivenza in queste condizioni. Dinanzi ad alcune manifestazioni estreme dell’arte contemporanea più di un critico ha dichiarato di scegliere, ormai, il silenzio. Altri, lo abbiamo già accennato, offrono il prodotto critico come un prodotto d’arte, la critica cioè diventa consustanziale all’arte, parte della produzione del valore artistico e, come per esempio volevano i concettualisti, oggetto d’arte essa stessa.

L’oggetto artistico, l’oggettività di valore artistico, ha subito, e l’abbiamo già visto, lo stesso procedimento di riduzione: lo scolabottiglie ne è stato uno dei primi esempi. Da quel tempo la presentazione dei ready-mades si è moltiplicata. Ma il gesto di Duchamp era iniziale e ultimativo. Nei decenni successivi l’analisi ha percorso la sua strada, attraversando tutti i suoi gradi e giungendo poi, di nuovo, a Duchamp. Se il cubismo aveva scomposto l’oggetto della rappresentazione, che pure rimaneva evidente, l’arte astratta ha sottratto l’elemento figurativo al dipinto tradizionale, la musica futurista “dei rumori” l’elemento strumentale, la dodecafonia il tonalismo, Dada qualsiasi residuo vi potesse essere di ragionevolezza, e così via per successive sperimentazioni riduttive di cui le cronache e le storie dell’arte danno ampia testimonianza. Fino a giungere ad azioni emblematiche come l’informale, che nella stessa titolazione nega la nozione tradizionale di forma, e fino alle posizioni estreme (e abbastanza recenti) del minimalismo e del concettualismo, nell’ambito del quale qualsiasi supporto materiale dell’opera scompare per essere sostituito semplicemente da una frase – non occorre come essa sia tracciata graficamente – o anche, ancora più riduttivamente, da un pensiero. Non solo, ma si è aggredito pure quella struttura che era sempre, o quasi, rimasta intatta in queste operazioni — quella che vedeva da un lato l’ “artista”, o comunque chi “produceva” e “proponeva” l’oggettività “artistica”, e dall’altro proprio questa oggettività -mediante l’identificazione dell’artista con l’opera. L’ “artista”, insomma, come si è visto in innumerevoli performances, presenta se stesso, il suo corpo, come opera d’arte, in varie azioni, gesti, discorsi, situazioni. In questo modo il sistema delle arti si riduce ad un solo elemento. Col che si vuol dire, più semplicemente, che quel processo storico che aveva visto gli oggetti d’arte separati, e poi riuniti in una classe, in una definizione, e che abbiamo tentato di descrivere all’inizio di questo saggio, secondo la cultura contemporanea è proprio concluso, nonostante le filosofie che hanno tentato di delinearne alacremente gli elementi costitutivi. Come, ha scritto un critico contemporaneo, accanto ad una continua ed acuta ricerca sulla definizione dell’arte, ci è stato dato, parallelamente, di assistere al processo inverso, quello della definizione dell’arte. Questo ci premeva porre in luce, sia pure “in qualche modo”: una situazione reale della cultura contemporanea che, seppure guardata talora con fastidio e curiosità, o anche benignamente ignorata, incombe tuttavia su un passato che sarebbe colpevole ormai non voler riconoscere nella sua essenziale storicità.

4. A titolo di provvisoria conclusione

L’estetica dunque, cui questa Introduzione è dedicata, se è osservata tenendo fede agli eventi della contemporaneità che essa avrebbe il compito di disciplinare e di ordinare rendendone ragione, ci si presenta con una sua validità qualora essa sia applicata al passato, collocata fra i pensieri e le arti del passato, ma inutile, ridondante, contestata, qualora si cerchi di adattarla al presente. Chi si accinga oggi a discorrere di estetica deve essere ben consapevole della frattura che si è generata all’interno della disciplina in ordine al mutamento di quello che dovrebbe essere il suo oggetto, dell’attività umana cui la sua riflessione era dedicata. È chiaro come, durante tutta la sua storia, il destino dell’estetica sia stato, seppure non rigidamente, connesso con quello delle arti; come essa si sia presentata di principio come una metariflessione portata su un discorso, quello della critica, delle poetiche, della pragmatica, rivolta a un oggetto (le arti) in continuo movimento, e quindi preoccupata della sistemazione teorica dei presupposti che lo rendevano possibile: è così che si può parlare di un’estetica del neoclassicismo, di un’estetica romantica, e così via. Ma oggi, evidentemente, un’estetica non è più asseribile con le strumentazioni tradizionali. E quindi, abbandonati i vecchi parametri, allo studioso di teoria delle arti, nella fuga di queste dalla loro specificità, non resta che occupare i territori che possono apparire prossimi a quello che le arti erano, dedicarsi, per esempio, allo strutturalismo, alla semiotica, alle scienze della comunicazione, alle discipline linguistiche, alla psicanalisi, ecc., come del resto si è già visto. Oppure cercare di seguire ciò che sono divenute le arti nei loro vertiginosi spostamenti, correndo però tutti i rischi che quest’avventura comporta, seguire le intenzioni degli “operatori estetici” nei loro richiami alla sensibilità minimale, ad un poièin (creazione) anch’esso ridotto, al confondersi e sostituirsi delle arti e dei generi, al mescolarsi delle arti (di ciò che un tempo si dicevano “le arti”) con il mondo e con la vita.

Resta, per tutte queste cose, un elemento, l’unico, che ancora le distingue, o vorrebbe distinguerle, anche se forse non riesce a salvarle. Ed è il raggio, la mira della valutazione estetico-artistica che esse ancora oggi quasi sempre pretendono, senza recare alcuna ragione, un ambito di privilegio in cui si vuole che ciò che si vuole che accada veramente accada. Demolita insomma la struttura dell’artisticità, si vorrebbe che il suo puro valore in qualche modo restasse. O un valore ad esso simile, comunque. Il gioco dell’arte contemporanea è quello di rifiutare il sistema delle arti con quanto vi è connesso, ma di conservare qualche considerazione per l’ombra venerata di un rito valutativo che si rifiuta e si ricerca, nostalgicamente, allo stesso tempo. Ma c’è chi va oltre, fa altre proposte, che concernono il dissolversi dell’arte (di ciò che un tempo si diceva arte) in un continuum di esperienza vitale, in cui, come già aveva preconizzato Dewey, sono incluse esperienze sensibili, emotive, immaginative (ma priva del privilegio, sempre deweiano, dell’organizzazione in un movimento ritmico finalizzato). E’ così che si può parlare, a seconda dei punti di vista, di una “morte dell’arte” come “scomparsa di un’arte “alta”, nobile, difficile e selettiva, a vantaggio di un’esteticità diffusa e capillare”, oppure, al contrario, pur protraendosi la crisi dell’arte, “in assenza di nuovi e significativi esiti delle ricerche di punta”, di un “sostanziale ritorno all’ordine”. Ma si potrebbe anche pensare a un’assenza, nella società contemporanea, di quel bisogno d’arte che, da diversi punti di vista, aveva caratterizzato i secoli precedenti, e che le funzioni già assegnate ad essa siano ormai vicariate dalle multiformi manifestazioni, rumorose e variopinte, da cui siamo circondati nella vita e nelle attività d’ogni giorno. A ciò che l’arte era (e all’estetica che di essa teorizzava) è rimasto un margine che si fa sempre più stretto.

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