La pittura metafisica
Il termine «metafìsica» ha origine dalla denominazione assegnata, nel I secolo a.C., da Andronico di Rodi a quei libri di Aristotele che trattano delle «cause prime» della realtà e che, nella sistemazione del Corpus aristotelico, sono stati collocati «dopo» (metà) quelli che trattano le «cose naturali» (tà physikà).
Oggi lo si usa per esprimere ciò che è oltre l’apparenza fìsica, ossia l’essenza intima della realtà al di là dell’esperienza sensibile.
Dagli scritti di Giorgio De Chirico ricaviamo i fondamenti teorici di questa corrente: «Pigliamo un esempio: io entro in una stanza, vedo pendere una gabbia con dentro un canarino, sul muro scorgo dei quadri, fini in una biblioteca dei libri; tutto ciò non mi colpisce, non mi stupisce poiché la collana dei ricordi che si allacciano l’un l’altro mi spiega la logica di ciò che vedo; ma ammettiamo che per un momento e per cause inspiegabili ed indipendenti dalla mia volontà si spezzi il filo di tale collana, chissà come vedrei l’uomo seduto, la gabbia, i quadri, la biblioteca; chissà allora quale stupore, quale terrore e forse anche quale dolcezza e quale consolazione proverei io mirando quella scena. La scena però non sarebbe cambiata, sono io che la vedrei sott’un altro angolo. Eccoci all’aspetto metafisico delle cose. Deducendo si può concludere che ogni cosa abbia due aspetti: uno corrente, quello che vediamo quasi sempre e che vedono gli uomini in generale, l’altro lo spettrale o metafisico che non possono vedere che rari individui in momenti di chiaroveggenza o di astrazione metafisica, così come certi corpi occultati da materia impenetrabile ai raggi solari non possono apparire che sotto la potenza di luci artificiali quali sarebbero i raggi X, per esempio» (Sull’arte
metafisica,1919).
Nel panorama delle avanguardie europee la pittura metafisica rappresentò un altro originale contributo italiano. Ad essa diede forma in particolare Giorgio De Chirico, ma vi aderirono per un breve periodo anche Carlo Carrà e Giorgio Morandi, senza dimenticare il fratello di De Chirico, Andrea, noto con il nome di Alberto Savinio (Atene, 1891 – Roma, 1952) e dedito ad una produzione pittorica caratterizzata da una tematica eminentemente surreale.
“Perché un’opera d’arte sia veramente immortale, è necessario che esca completamente dai confini dell’umano: il buon senso e la logica la danneggiano.”
(G. De Chirico, 1914)
Giorgio De Chirico, Canto d’amore, 1914, olio su tela, 73 x 59 cm, New York,Museum
Mitologie moderne:
Canto d’amore
In Canto d’amore, dipinto dall’artista nel 1914, lo scorcio di una piazza italiana delimitata da un portico ad archi funge da palcoscenico per un’enigmatica e paradossale messa in scena, nella quale una testa del dio Apollo appesa a una parete (un’esplicita citazione dell’Apodo del Belvedere} si trova collocata al fianco di un gigantesco guanto di gomma arancione. In primo piano troneggia solitaria una palla verde, simbolo di perfetta armonia e attributo del dio greco. Sullo sfondo, dominato da un cielo azzurro senza nuvole, si intravede una sbuffante locomotiva.
La scena, rappresentata con linguaggio lucidamente realistico, è pervasa da una luce ferma e abbagliante che genera ombre pesanti e profonde. L’incongruità degli accostamenti, l’assenza di persone e l’arbitrarietà degli scorci prospettici sprofondano l’immagine fuori dal tempo e dal senso comune, creando un clima di immobile e allucinata sospensione, in cui il sentimento dell’assurdo e una sottile ironia convivono con il mistero e l’enigma. «Tutto è reso con un freddo scrupolo di oggettività: ogni cosa esiste in una condizione di irrelatività e impossibilità. Inutile cercare significati reconditi, relazioni profonde: il significato, il principio di relazione è la negazione di ogni significato o relazione» (G.C. Argan).
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