ASTRATTISMO
Linee, colori, piani:
il superamento dell’oggetto
“L’astrattismo è molto più che semplice astrazione: questa, nell’arte, conduce a due sole possibili, diverse mete – a un esoterismo superficiale ed autoreferenziale oppure a mondi paralleli e solitari; l’altro porta l’uomo ad esperire la fatica della profondità, la libertà dalla dialettica fra sé e il mondo, la poesia dell’invisibile cui l’artista dona frammenti d’anima e forme indipendenti dal visibile.”
L’astrattismo è stata una delle correnti artistiche più discusse del Novecento: la sua innovatività rispetto ad una sorta di primigenio «stato dell’arte» desta ancor oggi perplessità, sconcerto, e perfino fastidio nel pubblico di media cultura. La causa principale di questo atteggiamento è senza dubbio da indicarsi nel suo aver in qualche modo istituito i principi teorici e formali di un completo e definitivo capovolgimento della plurisecolare concezione dell’arte come «imitatrice della realtà». Una concezione che, in effetti, ha prevalso nella storia dell’arte occidentale, ma cui si è più volte opposta una visione nettamente diversa, mirante cioè a scostare l’immagine dalla realtà sensibile, fino ad astrarla del tutto: cosi, fin dalle prime manifestazioni artistiche umane, abbiamo visto affermarsi, pur nella generale prevalenza di un codice naturalistico figurativo, fasi di rifiuto, coincise con lo sviluppo di una tendenza ideologica e formale astratta, simbolica, non-fìgurativa o quantomeno incline a semplificare e schematizzare il dato eventualmente desunto dal mondo sensibile, allo scopo di esprimere gli invisibili contenuti della sfera spirituale e psichica dell’uomo.
Criteri d’astrazione concettuale e di fortissima sintesi formale hanno connotato, per esempio, l’arte del neolitico (V-IV millennio a.C.) e di buona parte delle età del rame e del bronzo (III-II millennio a.C.) in Europa e in alcune aree del Mediterraneo (si pensi alle sculture cicladiche ); sono riapparsi all’alba della civiltà greca, nel rigore logico-matematico dello stile geometrico, e nell’età di formazione di quella etrusca, durante il periodo villanoviano; sono stati assorbiti e metabolizzati nell’arte romana imperiale delle province più lontane e «barbare», confluendo secoli dopo nel romanico e nel suo sterminato codice simbologico. Solo il lungo periodo che va dal rinascimento alla fine del XIX secolo è rimasto pressoché immune da ritorni d’interesse per il lessico artistico astratto, fatti salvi alcuni usi eruditi di simboli non-fìgurativi nel Cinquecento e nel Seicento, ed alcuni momenti di ora genuina, ora intellettualistica ripulsa dell’arte occidentale, in direzione di un ritorno a uno stato di primitiva ingenuità, cosi come predicato da artisti quali Gauguin e Rousseau.
L’astrattismo del primo Novecento, però, è assai più di un codice astratto. Esso segna di fatto, in modo radicale e clamoroso, il momento conclusivo di un lungo processo che, iniziato col romanticismo, ha visto sempre più spesso e recisamente negare all’arte il compito di descrivere soltanto la realtà esterna, per attribuirle piuttosto quello di esprimere sempre più a fondo e ampiamente il sentimento inferiore dell’artista.
Il presupposto di fondo dell’astrattismo è semplice, in pratica: se l’arte non è rappresentazione del mondo esteriore, ma solo estrinsecazione di quello interiore anche in quanto prodotto del continuo impatto della psiche con ciò che la circonda, allora bisogna avere il coraggio di andare oltre ciò che già è stato fatto e non limitarsi a proiettare la nostra vita inferiore negli oggetti reali dipinti, ma abolire completamente questi ultimi, visualizzando con forme, linee e colori il complesso oscuro dei sentimenti, delle pulsioni, delle emozioni, delle inquietudini che agitano lo spirito, la coscienza e l’inconscio.
Il processo si determina facendo agire l’artista psicologicamente sull’inconscio dello spettatore attraverso il suo occhio, cosi come il musicista agisce sull’inconscio dell’ascoltatore attraverso il suo udito mediante il rapporto reciproco delle note.
In altri termini, il pittore deve svincolarsi dalla riproduzione di una tematica oggettiva esteriore per comunicare unicamente il proprio «io», accostandosi con ciò alla felice situazione del musicista. Quest’ultimo, non schiavo di banali imitazioni naturalistiche, manipola liberamente i suoni, li agglomera o li distende, ne da cioè un’audizione verticale (l’ascolto di note eseguite simultaneamente) o orizzontale (l’ascolto di note eseguite successivamente), e ne sceglie l’ordinamento seguendo non la logica del pensiero organizzato in parole, ma una propria logica interna esclusivamente musicale.
L’astrattismo fa un discorso analogo a quello della musica, basandosi su relazioni reciproche di colori, luci, linee, spazi, volumi. L’analogia fra pittura e musica è comune, come si è visto, nella concezione artistica europea fra Ottocento e Novecento, ed è analogia spontanea. Esiste una tale parentela fra musica e immagine, che si giunge perfino a scambiarne i termini: prendendo in prestito aggettivi della figurazione, si parla, in musica, di suoni «chiari» o «scuri» e, viceversa, si parla, nelle arti visive, di «tonalità», di colori «squillanti», «cantanti» e cosi via.
È però con gli inizi del Novecento che il problema viene affrontato direttamente, da parte non soltanto dei pittori, ma anche dei musicisti.
Fra questi ultimi Alexandr Skrjabin (1871-1915) pensa a un accordo totale fra suono e colore, in cui l’uno suggerisca l’altro o in cui essi si integrino addirittura reciprocamente.
Verso l’arte globale
La concezione di Skrjabin non è certo una novità. Già Wagner, concependo il suo Wort-Ton-Drama («dramma teatrale di parole e suono»), aspirava a un’arte globale in cui musica, parole, azioni, scene, luci, colori costituissero un tutto inscindibile, come del resto era insito anche nelle prime esperienze melodrammatiche del Seicento. Skrjabin giunge oltre (riprendendo un’idea già esposta da padre Louis-Bertrand Castel nel XVIII secolo): prevede una precisa corrispondenza fra singolo suono e singolo colore, fra accordi di suoni e accordi di colori. Prepara, per Promèteo, il poema del fuoco – la sua ultima composizione sinfonica (1911) -, una partitura in cui prescrive da un lato ciò che è udibile e, dall’altro, ciò che è visibile, e progetta, affinché l’idea sia realizzabile, uno strumento completamente nuovo che chiama clavier a lumière, con il quale, premendo certi tasti ed emettendo i suoni ad essi relativi, si potevano, al tempo stesso, proiettare nell’ambiente luci colorate.
Se si eccettua qualche ulteriore tentativo (come quello di Wladimir Baronoff Rossiné, che a Mosca nel 1923 e successivamente a Parigi presenta il «piano opto-fonico», uno strumento a tastiera con il quale vengono proiettate rifrazioni luminose continuamente variate), l’idea di Skrjabin non ha avuto seguito.
Sempre in quel primo decennio del XX secolo, cosi importante per la cultura europea, con molta maggior coscienza dei mezzi oggettivi del musicista, Arnold Schönberg (Vienna, 1874-Los Angeles 1951), creatore di una delle più importanti tecniche compositive moderne, la «dodecafonia» e, non fortuitamente, anche pittore, inventa la Klangfarbenmelodie («melodia costituita dal colore dei suoni»). Si tratta di una melodia in cui, alla tradizionale successione di suoni distribuiti consecutivamente in un ambito temporale, si sostituisce una successione di timbri sonori in rapporto reciproco; su questo elemento si svilupperà successivamente buona parte della musica del Novecento.
Aggiungiamo che Schönberg, il quale come compositore e come pittore appartiene piuttosto all’espressionismo che all’astrattismo, parteciperà al gruppo Der Blaue Reiter e scriverà per l’omonimo almanacco un saggio sulla musica, accentuandone il significato di pura espressione non dominata dalla razionalità e riferendo un pensiero del filosofo Arthur Schopenhauer, particolarmente importante per comprendere la concezione dell’arte e dell’artista in questo momento: «II compositore rivela l’intima essenza del mondo ed esprime la saggezza più profonda in un linguaggio che la sua ragione non intende; come un sonnambulo, nel suo sonno magnetico, rivela cose delle quali, da sveglio, non ha alcun ricordo».
La musica è astratta. Anche la pittura dovrà essere astratta, cosi come lo è l’architettura; perché anche l’architettura, malgrado la funzione cui è destinata sembri dichiararne la pratica concretezza, è una libera composizione di volumi e di spazi senza nessun obbligo imitativo: un capitello, una colonna, un arco non copiano nulla, non rappresentano nient’altro che se stessi. Cosi la pittura dovrà essere solo se stessa, non la copia di qualcosa di estraneo: pittura pura.
Der Blaue Reiter
“Il nome lo trovammo mentre eravamo seduti a un tavolino del caffè […];ambedue amavamo l’azzurro, Mare i cavalli, io i cavalieri. Cosi il nome venne da sé: II cavaliere azzurro.”
(V. Kandinskij, 1912)
La nascita e la fortuna dell’astrattismo si deve soprattutto all’esperienza di un gruppo di artisti di diversa età, cultura ed origini, riunitesi – dopo una fase di frequentazione assai intensa e feconda – nella vivacissima realtà culturale di Monaco di Baviera sotto il nome Der Blaue Reiter («II cavaliere azzurro»). Partendo da un tessuto di ricerca formale di matrice espressionista, e pur mantenendo intensi contatti e cercando il confronto con esponenti delle coeve avanguardie europee, il percorso di Vasilij Kandinskij, Franz Marc, August Macke, Gabriele Münter (Berlino, 1877-ivi, 1962), Aleksej von Jawlenskij (Torjok, 1864-Wiesbaden, 1942) – nucleo stabile della formazione – e dei loro occasionali fiancheggiatori (tra i quali furono anche Delaunay e Picasso, Kirchner e Nolde, Braque e Derain) si diresse verso un linguaggio istintivo e finalizzato a ricondurre alla natura lo spirito attraverso la sinergia delle arti – pittura, musica, letteratura. La deriva di una simile impostazione non poteva che condurre a un rapido, progressivo abbandono del linguaggio figurativo in nome di una ricerca interiore su musica e colore, così da favorire l’espressione dell’interiorità.
De Stijl
In Olanda, nel 1917, alcuni artisti – tra i quali i pittori Theo Van Doesburg (Utrecht, 1883-Davos, 1931) e Piet Mondrian, gli architetti Jan Wils (Alkmaar, 1891-1972) e Gerrit Thomas Rietveld (Utrecht, 1888-ivi, 1964), lo scultore Georges Vantongerloo (Anversa, 1886-Parigi, 1965) – si riuniscono nel gruppo detto De Stijl, che espone le proprie idee nella rivista omonima.
Le teorie del gruppo sono abbastanza vicine a quelle del suprematismo: il superamento della rappresentazione dell’oggetto preesistente e la creazione di forme pure, bidimensionali, geometriche, ma la diversa tradizione storica, la diversa cultura, la diversa situazione politica conducono a conclusioni indipendenti le une dalle altre: l’astrattismo russo si collega all’ansia, al fervore, al disordine di un paese in fermento, avviato alla violenza della rivoluzione; quello olandese, invece, all’ordine mentale, alla chiarezza di un popolo avvezzo da sempre a dominare anche la natura con la forza della ragione e del lavoro.
Le idee sostenute da De Stijl sono frutto di un’elaborazione collettiva, ma si deve soprattutto a Mondrian se esse hanno raggiunto un alto significato artistico.
Oltre la pittura
De Stijl, o neoplasticismo come preferisce chiamarlo Mondrian, investe non soltanto il campo della pittura: i suoi principi astratti, la sua ricerca di essenzialità e di universalità possono essere adottati da tutte le arti, anche nell’ambito dell’arredamento.
L’architettura, per esempio, ne sarà fortemente influenzata, semplificando e componendo variamente piani, spazi, volumi e colori e avvicinandosi molto sia alle sperimentazioni coeve del Bauhaus, sia alle prime istanze del razionalismo.
L’astrattismo in Italia
In Italia l’astrattismo si sviluppa in ritardo rispetto alle altre nazioni, forse perché nel secondo decennio del secolo le avanguardie si esauriscono nel futurismo e, successivamente, perché l’avvento al potere del fascismo da un lato da forza alla tesi del «ritorno all’ordine», in coincidenza con l’affermarsi dell’autorità centrale, e dall’altro, formandosi sul nazionalismo radicale, conduce alla chiusura retriva nei confronti di ogni eventuale influenza europea.
Solo negli anni Trenta alcuni artisti, peraltro rimasti isolati nel concerto del «Novecento Italiano» classicheggiante, rifiutano il realismo figurativo e scelgono la rappresentazione di forme e colori puri. Ricordiamo fra essi: Luigi Veronesi (Milano, 1908- ivi,1998), Alberto Magnelli (Firenze, 1888-Meudon, 1971), Osvaldo Licini (Monte Vidon Corrado, 1894- ivi, 1958), Atanasio Soldati (Parma, 1896- ivi, 1953).
Quindi anche in Italia e in pieno Fascismo ci fu una breve stagione astratta, ma i suoi protagonisti, pur lavorando ai margini del mercato e dello stile di regime, non incorsero nella persecuzione di Mussolini, non dovettero abbandonare la patria, nessuno li accusò di eversione o degenerazione. Anzi, in un primo tempo, soprattutto nel campo dell’architettura, il rapporto con il Fascismo fu, se non di collaborazione stretta, di mutua condiscendenza. Eppure, nulla di più estraneo ai trionfi fascisti della levità di Fontana scultore, dei ritmi squisiti e rigorosi di Melotti, delle vibrazioni cromatiche di Licini.
Gli astrattisti italiani, in realtà, non costituirono mai un pericolo perché, giunti abbastanza tardi alla poetica dell’Astrattismo, non ne colsero mai il fondamento utopico, non lo assunsero come linguaggio di progetto e di visione del mondo. Uno dei fondamenti dell’Astrattismo era la depurazione della sensibilità individuale, la decantazione dell’io nella pura assunzione della realtà plastica, in perfetta coincidenza tra arte e vita. Nessuna separazione quindi tra il mondo e l’artista, nessuna romantica lacerazione tra il creatore e la realtà, ma l’equilibrio appunto tra mente e natura, tra l’io e gli altri, tra l’individuo e la società, la società informata e costruita dall’arte, naturalmente. Ora, se per Atanasio Soldati “la pittura astratta ama l’analisi, l’ordine, la chiarezza, gli armoniosi rapporti della geometria”, per Osvaldo Licini “la pittura è l’arte dei colori e delle forme liberamente concepite ed è anche un atto di volontà e creazione ed è, contrariamente a quello che è l’architettura, un’arte irrazionale, con predominio di fantasia e immaginazione, cioè poesia”. Un’arte così non poteva certo far paura al Duce e ai suoi ideologi.