L’EPOCA DEL GENIO E DELLA PASSIONE
Uno dei maggiori interpreti della pittura romantica tedesca, Caspar David Friedrich, sviluppa la propria poetica sulla base del saggio Le arti figurative e la natura (1807), del filosofo tedesco Friedrich Schelling, che aveva indicato nella pittura il tramite fra l’animo umano e il mondo della natura. In effetti, forse per la prima volta, gli sconfinati paesaggi di Friedrich, e in parte quelli dei suoi continuatori, riescono a visualizzare l’insondabile e illimitata interiorità dell’uomo.
Caspar David Friedrich
Caspar David Friedrich (Greifswaid, 1774-Dresda, 1840) è ritenuto un grande paesaggista; ma la parola va intesa non in senso illuminista (si pensi ai dipinti del Canaletto), bensì nel senso romantico di totale convivenza dell’uomo, finito e tuttavia colmo di aspirazione all’infinito, con la natura, immensa e possente.
Nel paesaggio Friedrich trasfonde la ricchezza dei suoi sentimenti, la coscienza della solitudine dell’uomo, la sua angoscia di fronte al mistero; nella natura egli coglie il «sublime», tema fondamentale del romanticismo, che è stato definito da uno dei massimi filosofi tedeschi, Immanuel Kant (1724-1804); sublime è il senso di sgomento che l’uomo prova di fronte alla grandezza della natura, sia nel suo aspetto pacifico, sia ancor di più nel momento della sua terribilità, quando ognuno di noi sente la sua piccolezza, la sua estrema fragilità, la sua finitezza, ma, al tempo stesso, proprio perché cosciente di questo, intuisce l’infinito e si rende conto che l’anima possiede una facoltà superiore alla misura dei sensi.
Una delle opere dell’artista che possono meglio esemplificare questa rappresentazione del sublime è il Viandante sul mare di nebbia.
La grandezza della natura vi è espressa dall’immensità spaziale; dai monti scalati in profondità e appena visibili sullo sfondo; dall’altezza della montagna rocciosa dalla cui vetta l’uomo, solitario, guarda verso l’infinito; dalla nebbia fluttuante che invade tutto il paesaggio sottostante, lasciando avvolto nel mistero ciò che ricopre e trasmettendo, come sempre accade quando il nostro occhio è impossibilitato a scorgere le cose con chiarezza, il senso dello smarrimento di fronte all’intuizione della profondità abissale. Ne segue, al tempo stesso, l’esaltazione dell’animo che – come dice Kant – «si abbandona all’immaginazione e alla ragione, la quale ultima, pur unendosi all’immaginazione senza alcun fine determinato, la estende, e insieme trova che tutta la potenza dell’immaginazione stessa è inadeguata alle sue idee». Ma l’opera è anche ricca di simbolismi religiosi, strettamente connessi alla riflessione sulla natura: dal viandante, che nell’iconologia cristiana rappresenta la transitorietà di una vita destinata a sfumare nell’esistenza ultraterrena, alla nebbia, riferimento agli errori che compiamo in quanto creature fallibili; dalle rocce emergenti, raffigurazione della fede in Gesù, alla lontana montagna, Dio e meta finale dei nostri sforzi.
((… la vera sublimità deve essere ricercata solo nell’animo del giudicante, non nell’oggetto naturale, il cui giudizio è reso possibile solo dallo stato d’animo. Chi vorrebbe dire sublimi masse informi di
monti sovrapposte l’una all’altra in selvaggio disordine, con le loro piramidi di ghiaccio, oppure il mare oscuro e tempestoso e altre simili cose?))
(I. Kant, 1790)
«Devo essere solo e sapere che sono solo per poter vedere e sentire pienamente la natura. Devo compiere un atto di osmosi con quello che mi circonda, diventare una sola cosa con le mie nuvole e le mie montagne per poter essere quello che sono.))
(C.D. Friedrich, s.d.)
• Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia;
circa 1818; olio su tela; 94,8×74,8 cm. Amburgo, Kunsthalle.
L’artista, come uomo romantico, ha un’anima inquieta, riconosce la sua posizione di transitorietà permanente, sente di non appartenere al passato ma non crede nel futuro. Ama dunque la riflessione e la solitudine. Tanti personaggi dipinti da Friedrich sono colti mentre contemplano un paesaggio grandioso. Il Viandante sul mare di nebbia , forse una metafora dell’anima che si trova al cospetto di Dio, contempla dall’alto di una roccia un paesaggio montuoso immerso in una fitta nebbia. Solo, di fronte al sublime spettacolo dei massicci che si stagliano all’orizzonte, egli sembra quasi trattenere il respiro, misurare la propria nullità dinanzi all’immensità di questo cosmo silenzioso, inquietante e misterioso, che percepisce come irrimediabilmente distante, del tutto inaccessibile. Anche se l’artista non ci mostra gli occhi del viandante, crediamo di conoscere ugualmente il suo sguardo: la sua visione, che poi è quella del pittore, è infatti diventata la nostra.
Nel 1824, Friedrich manifestò i primi sintomi di una grave malattia nervosa legata probabilmente al suo perenne stato depressivo. Un amico dell’artista raccontò che gli «si erano venute sviluppando idee fisse, evidente anticipazione della malattia cerebrale alla quale dovrà soccombere, che minarono la sua vita familiare. Essendo diffidente, tormentava sé e gli altri, immaginandosi infedeltà coniugali, in un vaneggiare insensato ma che lo assorbiva completamente». Fu proprio in questo periodo, tuttavia, che realizzò uno dei suoi grandi capolavori: Il mare di ghiaccio, opera nota anche come Il naufragio della Speranza. Il quadro rappresenta un vascello naufragato e inghiottito dal ghiaccio.
Caspar David Friedrich, // mare di ghiaccio, 1824. Olio su tela, 96,2 x 126,9 cm. Amburgo, Kunsthalle.
Dell’imbarcazione s’intravedono solo alcune tracce scheletriche, pochi resti frantumati quasi interamente nascosti dalla piramide frastagliata di un iceberg spezzato.
Questa allucinante visione di un mondo gelato trasformatosi tragicamente in un paesaggio cimiteriale, è chiaramente concepita con intento simbolico; essa vuole indicare che le aspirazioni effimere dell’uomo sono regolarmente distrutte dalle forze ostili di una natura onnipotente. Ogni sforzo sembra risultare vano. L’azione, il coraggio, l’energia sono del tutto inutili. La natura si vendica sempre per le ferite che l’uomo le ha inferto e nel momento in cui questi lede la sua inviolabilità essa lo distrugge. Il paesaggio glaciale di Friedrich offre, comunque, altre due chiavi di lettura, una religiosa e l’altra politica. I blocchi di ghiaccio potrebbero alludere a Dio, un Dio eterno e inaccessibile, e i resti della nave richiamare la fragilità umana di fronte all’essenza divina. In tal caso, il dipinto sarebbe un’allegoria della morte, l’ultima tappa della navigazione della vita. Oppure il paesaggio ghiacciato potrebbe rappresentare una velata denuncia del “torpore glaciale” già che aveva, per così dire, “ibernato” la situazione politica tedesca. La nave naufragata simboleggerebbe in questo caso, la bara della libertà.
Dopo Il mare di ghiaccio, la carriera di Friedrich cominciò la sua parabola discendente: la depressione gli impediva di dipingere e un infarto aggravò sensibilmente le sue condizioni di salute. Trascorse gli ultimi anni di vita nella più triste solitudine.