DADAISMO

 • Dada

Se è vero che non possiamo mai spiegarci i fenomeni umani senza inquadrarli nel cor­rispondente periodo storico, ciò è ancora più vero nel caso di dada.

È infatti assolutamente impossibile capire il significato di questo movimento culturale, se non si torna al particolare momento in cui esso è nato: i terribili anni della prima guerra mondiale (1914-1918), quando tutti i valori umani apparivano irrimediabilmente travolti dalla logica orrenda del grande conflitto.

Quest’ultimo originò una specie di disgusto e di rifiuto verso tutto ciò nel cui nome soli­tamente si combatte, in altre parole verso tutte le forme costituite della società. Oggetti di par­ticolare avversione furono le classi dirigenti in genere e il multiforme potere economico, ritenuto fattore scatenante di qualsiasi tipo di conflitto (dalla rivendicazione del lavoratore salariato alla guerra fra nazioni). In un’ottica del genere è evidente come gli strali del mo­vimento non potessero non colpire anche la cultura che rappresentava la società coeva.

Arte e libertà  

 Libertà dalla realtà e dal suo principio, sovversione della logica generata dalla realtà. Non un semplice istinto di ribellione, ma un programmatico rifiuto dell’intero orizzonte culturale occidentale muove i passi delle avanguardie più estreme della prima metà del Novecento. Quello di dadaisti e surrealisti è un rigetto profondo, cui le ansie di fuga in lontani universi esotici sono ormai estranee. La loro scelta, antibellicista e, almeno inizialmente, tangente all’ideologia marxista, è quella di rifondare l’Occidente su basi nuove e polemicamente alogiche: ciò comporta una totale destrutturazione dell’esistente.

 Dadaismo e surrealismo hanno in comune il tema della libertà da ogni condizionamento; ma mentre il primo intende tale libertà soprattutto in senso negativo – come distruzione dell’eredità lasciata dalla cultura tradizionale -, il secondo compie un passo ulteriore, opponendo alla distruzione dadaista la possibilità di una ricostruzione.

II dadaismo in Svizzera

È questo lo spirito che animava un gruppo di giovani intellettuali di varie nazionalità, rifugiatisi nella Svizzera neutrale per sfuggire alla guerra.

Lo dirà con chiarezza, molti decenni dopo, uno dei fondatori di dada, il poeta rumeno Tristan Tzara (1896-1963) che, in proposito, aggiungeva: «II disgusto si applicava a tutte le forme della civilizzazione cosiddetta mo­derna, alle sue basi stesse, alla sua logica, al suo linguaggio».

Dada vuole distruggere tutto, per ricostruire un mondo completamente diverso, rendendo all’uomo quel ruolo di protagonista, che gli è stato gradualmente tolto a favore dell’orga­nizzazione alienante della società moderna. «Dada nacque – dice Tzara – da un’esigenza morale, dalla inesorabile volontà di raggiun­gere un’assolutezza morale, dalla profonda consapevolezza che l’uomo, al centro di ogni creazione dello spirito, dovesse affermare la sua preminenza sulle conoscenze impoverite dell’essenza umana, sulle cose morte e sui beni male acquisiti. Dada nacque da una rivolta che allora era comune a tutti i giovani, una rivolta morale che esigeva un’adesione completa, senza riguardi per la storia, la logica, la morale comune, l’Onore, la Patria, la Famiglia, l’Arte, la Religione, la Libertà, la Fratellanza», ossia tutte le convenzioni della società.

Che si trattasse di un sentimento comune a molti giovani è provato dal fatto che la rivolta culturale esplose contemporaneamente, senza contatti reciproci, a Zurigo e a New York e che si estese rapidamente in buona parte d’Europa, soprattutto in Germania e in Francia.

Ufficialmente tuttavia dada nasce ad opera del citato gruppo di giovani rifugiatisi in Svizzera, alcuni dei quali avevano fondato a Zurigo, nel 1916, un Cabaret cui venne dato il significativo nome di Voltaire, il filosofo illuminista francese sostenitore della ragione contro ogni pregiudizio.

Insieme a Tzara, facevano parte del gruppo:

il filosofo e scrittore Hugo Ball (1886-1926), amico di Kandinskij e di Klee, partecipe delle esperienze del Blaue Reiter e fuggito dalla Germania per non essere costretto ad andare in guerra, così come i compatrioti Hans Richter (1888-1976) e Richard Huelsenbeck (1892-1974); lo scultore alsaziano Hans Arp  (Strasburgo, 1887-Basilea, 1966); il pittore rumeno Marcel Janco (Bucarest, 1895-Tel Aviv, 1984).

Con la fondazione del Cabaret Voltaire, il gruppo si proponeva di guadagnare qualcosa per vivere e, al tempo stesso, di impegnare i le proprie energie intellettuali. Erano giovani, contrari alla guerra e di sinistra, anche se non organizzati politicamente.

A partire dai primi spettacoli cabarettistici, viene via via crescendo un atteggiamento ironico, dissacratorio e provocatorio. Poiché il movimento combatte contro i significati tradizionali attribuiti alle parole, espressione di concetti universalmente accettati, «dada», nelle intenzioni degli esponenti, non ha alcun significato. Tzara narra di avere trovato la parola a caso in un vocabolario, in una pagina del quale era incidentalmente scivolato un tagliacarte.

Dada è contro la letteratura, contro la poesia, contro l’arte, contro tutto ciò che si è fatto passare per eterno, bello, perfetto; è contro le correnti artistiche «moderniste»: l’espressionismo, il cubismo, il futurismo. Dada è libertà: può quindi essere anche contro dada. Il dadaismo non è un’estetica, come tutti gli altri movimenti; è un modo di concepire. Non si interessa del valore artistico: si interessa piuttosto dello shock che provoca nello spettatore per scuoterlo dalle sue pigre abitudini mentali.

Tutto è arte: un oggetto comune, messo in una certa posizione invece che in un’altra, oppure alcuni pezzi di legno grezzo inchiodati e colorati come nella Trousse d’un Da di Hans Arp, nella quale l’accidentalità, l’umoralità passeggera, il lampo di un eccesso di soggettività creano una figura che è non-sense ai fini logici, ma in quanto prodotto dell’uomo è già in sé «arte». In ciò sono ri­conoscibili forse elementi cubisti come il col­lage, che però il dadaismo intende in modo diverso: per il cubismo, il collage è un ri­chiamo alla realtà, matrice unica di ogni no­stra idea, ed è sottoposto all’organizzazione estetica; per il dadaismo è la negazione del­l’arte o, meglio, la dimostrazione che non esiste l’arte come qualcosa di nobile, ma che qualunque oggetto costruito dall’uomo, pro­prio perché tale, è frutto della creatività umana e quindi «è» arte. Il Ritratto di Tristan Tzara, di Hans Arp, si situa oltre l’astrazione, perché le sue forme non sono frutto né di sintesi né di codifica simbolica, ma dichiarano apertamente il rifiuto di un’organicità (che l’astrattismo mantiene ben salda quale estremo, raffinato, cerebrale rac­cordo col mondo sensibile lasciato alle spalle): esso è il capriccio senza necessità, perché dada è arte liberata dalla necessità. Con la fine della guerra, la grande maggio­ranza degli artisti che avevano animato Zu­rigo lascia la città per tornare in patria.

 II dadaismo in America

Negli stessi anni anche gli Stati Uniti, e in particolare New York, conoscono le prime ondate avanguardiste, che collocano rapidamente l’America in posizione di primo piano. Nel 1913, a New York, l’Esposizione internazionale d’arte moderna aveva mostrato le più avanzate creazioni europee, dagli impressionisti ai cubisti; il Nudo che scende una scala II, di Duchamp, e due quadri di Picabia, tra cui La danza alla fonte I, avevano suscitato scandalo ma anche interesse vivissimo. Entrambe le opere risentono palesemente dell’estetica delle avanguardie cubista e, più ancora, futurista. Quella di Duchamp è addirittura assimilabile alle ricerche cinetiche di Balla, mentre il quella di Picabia è presente una precoce sintesi tra il primo Léger e il futurismo plastico di Severini.

E’ soprattutto con l’arrivo quasi contemporaneo di Marcel Duchamp (Blainville, 1887 – Neuilly, 1968) e Francis Picabia (Parigi, 1879 – ivi, 1953), nel giugno del 1915, che divampano fermenti e idee analoghi a quelli del dada svizzero.

Già da due anni il primo aveva sovrapposto a uno sgabello bianco una ruota di bicicletta facendola poi ruotare liberamente: due oggetti eterogenei uniti solo perché il primo potesse fare da supporto al secondo, ambedue usuali nella vita quotidiana; materiale povero quindi, come il gomitolo di spago inserito fra piastre di ottone collegate fra loro da quattro bulloni. Sono quelli che Duchamp chiamò i ready-made, “oggetti d’uso comune”, «oggetti già fatti» ma isolati dal contesto, messi in mostra ed elevati polemi­camente al ruolo di «opere d’arte». Che vogliono dire opere di questo genere? Assolutamente nulla. Sono monumenti to­talmente autoreferenziali, assemblaggi acri­tici ed alogici di «prodotti» dell’uomo (in realtà più spesso di macchine predisposte dall’uomo – reso soggetto passivo – a realiz­zare oggetti in modo seriale e meccanico). Il punto morto della storia, l’ingorgo dell’in­gegno, la fine della dicibilità delle cose sono espressi nell’unico modo che possa sancirne la definitiva condizione: l’assurdo.

Addirittura dirompente fu l’invio da parte di Duchamp, sotto lo pseudonimo di Richard Mutt, di una «scultura», intitolata Fontana, a una mostra organizzata nel 1917. Era un orinatoio maschile in maiolica bianca, ca­povolto e collocato su un piedistallo di legno. Lo scandalo fu immenso; la «scultura» venne rifiutata, e Duchamp – che faceva parte del comitato organizzatore e l’aveva inviata ap­positamente sotto falso nome per mettere alla prova l’apertura mentale dei colleghi – si dimise clamorosamente. Restava tuttavia valida l’idea fondamentale: non soltanto un ready-made scelto fra quelli ritenuti «indecenti» dalla borghesia benpensante ma, come commentò acutamente una testimone oculare, «bianco, abbagliante, di una purezza che poteva dirsi primitiva: un orinatoio per uomini, quando lo si ricollocava nella posizione giusta. Ma così come era esposto, immerso nella luce che ne sottolineava con dolcezza le curve, ricreava il nostalgico effetto di una madonna velata».

Va aggiunto che oggi, oltre a vedere in queste opere di Duchamp l’intento di contraddire con decisione la tradizionale mitizzazione dell’opera d’arte, si da di esse anche qualche altra interpretazione simbolica, con riferimento all’alchimia che egli conosceva bene. Pensando allo pseudonimo scelto dall’artista, si può ve­dere in Fontana una relazione non soltanto con la parola Mutter («madre» in tedesco) ma anche con Mut, la dea-madre egizia, dotata contemporaneamente degli attributi femmi­nili e maschili in quanto generatrice di tutti gli uomini. In tal caso la scultura (che in basso presenta il simbolo maschile) potrebbe rap­presentare anche il ventre materno: il titolo stesso indicherebbe la fonte della vita.

Cosi i baffi e la barbetta dipinti in seguito (1919) da Duchamp su una riproduzione della Gioconda di Leonardo al di là del gesto iconoclasta compiuto sul quadro più celebre del mondo – sono la sovrapposizione di un elemento maschile su un volto femminile. Sotto il quadro compare una scritta, appa­rentemente misteriosa: L.H.O.O.Q., che in francese si pronuncia el aš ô ô qü e suona come Elle a chaud au cul («Ella ha caldo al culo»); una frase irriverente che potrebbe es­sere messa in relazione con l’immagine del­l’alchimia quale appare in un dipinto rina­scimentale che rappresenta una figura fem­minile con le braccia in posizione analoga a quelle della Gioconda e che, come questa, è collocata davanti a una distesa d’acqua, ma sta seduta su un tronco d’albero sotto il quale arde un fuoco: in alchimia il fuoco è l’elemento maschile e l’acqua quello femminile, fondamentali per la generazione.

 L’importanza storica di Duchamp è notevole, non soltanto per l’impatto della novità delle sue opere sui contemporanei, ma anche per le conseguenze che esse hanno avuto su tutta l’arte dei decenni successivi, fino a oggi.

Picabia, dopo una breve adesione al cubismo orfico, interpreta la moderna «civiltà delle macchine» rappresentando elementi meccanici, ma non, come Léger, con partecipazione sentimentale e inserendoli in un contesto spaziale, bensì raffigurandoli come oggetti bidimensionali, schemi di ingegneria.

Da questo momento aderiscono alla nuova corrente vari artisti americani, fra cui Morton Schamberg (Philadelphia, i88i-ivi, 1918), autore di Dio, un’opera dissacratrice tipicamente dada (secondo certa critica, dovuta alla collaborazione dell’artista con l’amica Else von Freytag-Loringhoven), formata da un doppio gomito di conduttura inserito in una guida di legno per tagli a quartabuono (ossia a 45°);

Arthur Dove (Canandaigua, 188o-Centerport, 1946), il cui collage II critico raffigura ironicamente un critico d’arte fatto di giornali, cioè della sola carta stampata, con i pattini a rotelle per correre da una mostra all’altra, la lente d’ingrandimento per vedere le opere nei minimi dettagli – perdendo di vista l’insieme – e l’aspirapolvere per pulirle dei presunti «sbagli»; e infine il più originale e dotato di tutti, Man Ray, che tratteremo tra breve.

Come era accaduto in Svizzera, anche a New York il ruolo del dadaismo si esaurisce con la fine della guerra, lasciando il seme solo in pochi artisti statunitensi. Duchamp, Picabia e Man Ray si trasferiscono, in momenti successivi, a Parigi per continuarvi la loro opera. La traccia lasciata dal dadaismo in America resterà soprattutto nell’impressione – comune nel pubblico e nei critici – che l’arte europea sia caratterizzata da una forte carica dissacratoria e da un certo intellettualismo.

  Il dadaismo in Germania

In Germania il dadaismo si sviluppa princi­palmente in tre città: Berlino, Colonia, Hannover.

Nel 1917 Huelsenbeck, tornato da Zurigo, trovò a Berlino un ambiente socialmente agi­tato per le conseguenze di una guerra che durava ormai da tre anni: la fame, la miseria, lo scontento. E la situazione era destinata a peggiorare e a precipitare successivamente con la sconfitta. La rivolta dadaista finisce quindi per diventare, a Berlino, rivolta poli­tica. Si capisce facilmente perciò come, dal dadaismo si passi, nel dopoguerra, alla Neue Sachlichkeit («Nuova Oggettività»).

I maggiori artisti tedeschi dada sono Hans Arp e Max Ernst (Brùhl, 1891-Parigi, 1976), che nel 1919 formano il cosiddetto «Gruppo di Colonia».

Il loro dadaismo, pur sempre innovatore e antiborghese, non ha tuttavia la palese into­nazione politica di quello berlinese: è piut­tosto contraddistinto dalla ricerca di un lin­guaggio espressivo nuovo. Con questo fine Ernst elabora alcune tecniche, fra cui – im­portantissimo per gli sviluppi futuri nell’arte del Novecento – il montaggio di vignette o di fotografìe ritagliate da giornali e combinate secondo rapporti nuovi, in modo da ge­nerare una reazione psicologica inconsueta nello spettatore, agendo sul suo inconscio ed esprimendo il mondo inferiore dell’artista.

 Ernst narra come nacque in lui  l’idea del montaggio: «Un giorno del 1919 (…) fui sorpreso dall’ossessione che esercitavano sul mio sguardo irritato le pagine di un catalogo il­lustrato. Vi trovavo insieme elementi di figurazioni talmente distanti fra loro che l’as­surdità di questi accostamenti […] fece na­scere in me un’improvvisa intensificazione delle mie facoltà visionarie, in una succes­sione allucinante di immagini contraddittorie, doppie, triple, multiple, sovrapposte le une alle altre […]. Era sufficiente aggiungere a queste pagine, […] dipingendo o disegnando, quello che vedevo in me […], per ottenere un’immagine fedele e immobile della mia al­lucinazione», trasformando in espressione dell’interiore «quelle che poco prima erano solo banali pagine pubblicitarie».

Oltre che nella metafìsica, le origini del fu­turo surrealismo sono presenti in queste os­servazioni. Nei montaggi di Ernst (come del resto nei collages di Arp, che continua a combinare insieme forme astratte ritagliate dal cartone) si possono vedere relazioni con il cubismo e con i fotomontaggi dei dada ber­linesi. Tuttavia i risultati sono diversi. I col­lages di Ernst sono ordinati secondo ricerche psicologiche ed espressive.

A Hannover, infine, il dadaismo si segna­la non per la formazione di un gruppo, ma per la presenza di un solo artista che svilup­pa in maniera personale le idee dadaiste: Kurt Schwitters (Hannover, i887-Ambleside, 1948).

Anche i suoi collages, come quelli di Arp, si distinguono da quelli cubisti per la parte la­sciata al caso. Per prepararli Schwitters rac­coglie di tutto: biglietti d’autobus, pezzi di legno e di ferro, chiodi, piume di gallina, francobolli, sassi, bottoni, tappi, frammenti di giornale, buste e altro, e li combina in­sieme senza un ordine preciso (assemblage).

 È l’applicazione visiva di quanto sostiene Tzara per la letteratura, polemizzando con quella ufficiale e con i molti complicati con­tenuti che la critica le ha sempre attribuito. Ecco gli ironici consigli che egli da per com­porre una poesia dadaista (1920): «Prendete un giornale, prendete un paio di forbici. Scegliete dal giornale un articolo che abbia la lunghezza che volete dare alla vostra poesia. Ritagliate l’articolo. Tagliate poi con cura tutte le parole dell’articolo e mettetele in un sac­chetto. Agitate con dolcezza ed estraetele col­locandole nell’ordine di estrazione. Copiatele con coscienza; la poesia vi assomiglierà e sa­rete diventato uno “scrittore molto origi­nale”».

 Alle sue composizioni Schwitters diede il nome di Merz, che nacque per caso dalla caduta fortuita, durante l’esecuzione di un collage, delle prime lettere della parola Kommerz («commercio»), ma che poi assunse il significato di tutto ciò che è contro il com­mercio, ossia, contro il capitalismo, contro l’estetica borghese.

Nel 1924 l’artista cominciò una specie di scultura aperta all’interno di casa sua. La chiamò Merzbau (“costruzione Merz”): consisteva nel riempire tutti i vani dell’abitazione con oggetti raccolti o con forme di gesso e di legno, cosicché restava poco spazio per l’uomo, che in pratica entrava a far parte dell’opera stessa. Il Merzbau fu distrutto da un bombardamento aereo nel 1943. 

 

 Il dadaismo a Parigi           |

Nel 1919 Picabia giungeva a Parigi per di­pingervi opere rivoluzionarie – come ad esempio L’enfant carburateur – che ri­prendevano gli schemi ingegneristici già usati nel periodo americano, ma con Raggiunta di scritte ironiche che polemizzavano con il mito dell’automobile, simbolo popolare dei mira­coli delle macchine: «II fanciullo carbura­tore», «distruggere il futuro» ecc.

 Tra la fine del 1919 e l’inizio del 1920 Picabia} entra in contatto con un importante gruppo di artisti e poeti, fra cui gli scrittori André Breton e Louis Aragon, e il poeta Paul Éluard, che già conoscevano dada. Nel gennaio del 1920 arrivava a Parigi anche Tristan Tzara; da questo momento in poi è tutto un susse­guirsi di manifestazioni dadaiste l’una più provocatoria dell’altra.

Dada, tuttavia, si avviava alla fine: come tutte le avanguardie, anche questa era destinata a venir rapidamente superata nel momento in cui, terminata ormai la guerra da alcuni anni, la situazione storica si presentava completa­mente mutata. Nonostante episodi significa­tivi, come le mostre parigine di Max Ernst e Man Ray nel 1921, il movimento fini con l’e­saurirsi completamente intorno al 1923 per essere sostituito dal surrealismo.

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