CLASSICO E ROMANTICO e PITTORESCO E SUBLIME Tratto da “L’arte moderna 1770/1970” di G.C. Argan – capitolo primo
La cultura artistica moderna appare imperniata sulla relazione dialettica dei due concetti “classico” e “romantico”. Essi si riferiscono a due grandi fasi della storia dell’arte:
il “classico” all’arte del mondo antico, greco-romano, ed a quella che si considera la sua rinascita nell’umanesimo del XV e XVI secolo;
il “romantico” all’arte cristiana del Medioevo, più precisamente al Romanico e al Gotico, cioè alle culture romanze.
Tanto il “classico” che il “romantico” sono stati teorizzati tra la metà del XVIII e la metà del XIX secolo: il classico da Winckelmann e da Mengs , il romantico dai fautori della rinascita del Gotico in Inghilterra, da pensatori e letterati tedeschi (per esempio i due Schlegel), da Viollet-le-Duc in Francia.
Teorizzare un periodo storico significa trasporlo dall’ordine dei fatti a quello delle idee, costituirlo a modello.
A partire dalla metà del XVIII secolo si forma una filosofia dell’arte (estetica). E’ allora che si produce una profonda cesura nella tradizione artistica e ha inizio il nuovo ciclo storico dell’arte: quello che si chiama moderno o contemporanea.
L’arte non viene più riferita ai grandi ideali conoscitivi, religiosi, morali, ma ad un ideale specificamente estetico. Si afferma così l’assoluta autonomia della sfera dell’arte e, nel momento stesso , si pone il problema del suo coordinamento alle altre attività umane, cioè del suo posto e della sua funzione nel sistema generale della cultura dell’epoca.
La cesura nel corso della tradizione figurativa si determina con la cultura dell’Illuminismo: la natura non è più la rivelazione dell’ordine certo e immutabile della creazione, ma semplicemente l’ambiente dell’esistenza umana, individuale e sociale; non è più un modello, ma uno stimolo a cui variamente si reagisce.
Quello che era il valore assoluto e a priori della natura come rivelazione o modello dato dall’alto, nell’arte moderna viene sostituito dall’ideologia (intesa) come immagine che la mente si fa della realtà come si pensa che sia o come si vorrebbe che fosse. Il fatto che il fattore ideologico, talvolta esplicitamente politico, prenda il posto del principio metafisico della natura come rivelazione così nell’arte neoclassica che nell’arte romantica, dimostra che esse rientrano nel medesimo ciclo storico: la differenza consiste solo nel tipo di atteggiamento (prevalentemente razionale o prevalentemente passionale) che l’artista assume nei confronti della realtà naturale e sociale.
Tra i motivi che , nel Settecento, determinano la fine di quello che potremmo chiamare il ciclo classico e l’inizio del ciclo romantico o moderno è preminente la trasformazione dei mezzi tecnici di produzione, con tutte le conseguenze che comporta nell’ordine sociale e politico. Era inevitabile che la nascita della tecnologia industriale, determinando la progressiva crisi dell’artigianato, provocasse la trasformazione delle strutture e delle finalità dell’arte, che della produzione artigianale aveva rappresentato il culmine, la ragione metafisica, il modello. Il trapasso dalla tecnologia dell’artigianato, che utilizzava le materie e imitava i processi della natura, alla tecnologia industriale, che agisce sulla natura trasformando rapidamente l’ambiente, è una delle cause principali della crisi dell’arte moderna: esclusi dal sistema tecnico-economico della produzione, gli artisti diventano intellettuali borghesi in rapporto di tensione e spesso di aspra polemica con la stessa classe dirigente di cui fanno parte. I rapidi sviluppi del sistema industriale, sia sul piano sociale sia sul piano tecnologico, spiegano il continuo mutare degli orientamenti artistici, il succedersi delle tendenze o delle poetiche, la loro forte accentuazione ideologica, i loro contrasti.
PITTORESCO E SUBLIME
Per il “pittoresco” la natura è un ambiente accogliente e propizio, che sviluppa nell’individuo i sentimenti sociali;
per il “sublime” la natura è un ambiente duro e ostile, che sviluppa nella persona il senso della propria individualità, della propria solitudine, della fondamentale tragicità dell’esistere.
Le poetiche del “sublime” e dello Sturm und Drang, benché concordemente riconosciute come pre-romantiche, indicano come supremi modelli le forme classiche e costituiscono dunque uno dei fondamenti del Neo-classicismo: gli artisti neoclassici assumono di fatto, nei confronti dell’arte classica, un atteggiamento nettamente romantico. Si può dunque affermare che il Neo- classicismo storico non è altro che una fase della concezione romantica dell’arte.
Il pensiero dell’Illuminismo, che è all’origine della cultura moderna, non pone la natura come una forma data e immutabile, che si può soltanto imitare o rappresentare: la natura che gli uomini percepiscono con i sensi, interpretano con l’intelletto, mutano con l’agire (è infatti dal pensiero dell’Illuminismo che nasce la tecnologia moderna, che non ripete la natura ma la muta) è già una rappresentazione mentale che ha nella mente tutti i suoi possibili sviluppi.
Distinguendo un “bello pittoresco” ed un “bello sublime” Kant distingue due giudizi che dipendono da due tipi di atteggiamento dell’uomo nei confronti della realtà: su di essi, e sulla loro relazione dialettica, fonda infatti la “critica del giudizio”.
Prima di essere assunto da Kant a categoria del bello, il concetto di “pittoresco” era stato posto da un pittore e teorico inglese, A. Cozens (1717 circa- 1786) come fondamento di una poetica del paesaggio, i cui capisaldi sono:
1) la natura è una sorgente di stimoli a cui corrispondono sensazioni che l’artista interpreta, chiarisce, comunica;
2) le sensazioni si danno come gruppi di macchie più chiare, più scure, variamente colorate e non in una forma costruita, come quella che l’arte classica rappresentava mediante la prospettiva, le proporzioni, il disegno;
3) il dato sensorio è comune a tutti, ma l’artista lo elabora e chiarisce con la propria tecnica mentale e manuale, e così guida la società ad una esperienza migliore e fa opera educativa;
4) il chiarimento non consiste nel decifrare nelle macchie la nozione dell’oggetto a cui corrispondano, distruggendo così la sensazione primaria, ma nel chiarire il significato e il valore della sensazione ai fini dell’esperienza del reale.
Le sensazioni possono essere piacevoli o spiacevoli; poiché si cerca il piacere e si evita il dolore, ciascuno è interessato a fare una scelta per orientare il proprio comportamento; l’interesse, cioè l’attività della mente, sarà maggiore quanto più vivaci (cioè quanto meno uniformi e più variati) saranno gli stimoli sensori.
Principio estetico fondamentale è dunque la varietà: in un paesaggio, per esempio, la presenza di cose varie (rocce, alberi, acque, nuvole, animali, figure), a ciascuna delle quali corrispondono diversi tipi di macchie. Naturalmente le macchie sono variabili secondo il punto di vista, la luce, le distanze. Ciò che la mente “attiva” afferra è dunque un contesto di macchie diverse ma in relazione tra loro; la macchia corrispondente ad un albero non muta soltanto col tipo dell’albero, ma col suo essere vicino o lontano, illuminato o controluce. L’interesse non consiste solo nel modo in cui si compie l’esperienza, ma anche nel modo con cui ci si accosta alla realtà: un sereno tramonto suscita un sentimento di calma, una bufera un sentimento di timore. Il processo dell’artista, secondo la poetica del “pittoresco”, va dalla sensazione visiva al sentimento; in questo processo dal fisico al morale, appunto, l’artista è guida ai suoi contemporanei.
La natura non è soltanto sorgente del sentimento, induce anche a pensare. Vediamo, ma sappiamo che quello che vediamo non è che un frammento della realtà; riflettiamo che, al di qua e al di là di quel frammento, infinita è l’estensione dello spazio e del tempo, poderose ed oscure le forze cosmiche che producono i fenomeni; sconfiniamo col pensiero oltre il veduto e il visibile, nel dominio del sogno, della memoria, della fantasia, delle divinazioni, delle intuizioni. Ciò che vediamo perde ogni interesse, ciò che non vediamo eppure pensiamo essere s’impone e ci sgomenta con la sua infinità che ci dà l’angoscia della nostra finitezza. Questa realtà trascendentale è il “sublime”.
Quando si varca la soglia del “sublime” le sensazioni visive dileguano per lasciar trasparire, come in una visione messianica, i segni o i simboli delle verità supreme.
Poetica dell’assoluto, il “sublime” si contrappone al “pittoresco”, poetica del relativo.
Nel secolo della ragione il “sublime” riapre il problema dell’irrazionale, che è poi il problema stesso dell’esistenza; ma soltanto dal punto di vista della ragione si può porre il problema di ciò che l’oltrepassa.
(Si ammira in Michelangiolo il genio ispirato, eroico, solitario, sublime: ma che altro è mai il trascendentalismo di Michelangiolo se non il superamento del classicismo inteso come equilibrio razionale di umanità e natura?)
E’ vero che la poetica illuminista del “pittoresco” vede nell’artista l’individuo integrato nell’ambiente naturale e sociale, e la poetica del “sublime” l’individuo che paga con l’angoscia e il terrore della solitudine la superbia del proprio isolamento; ma le due poetiche si integrano e nella loro contraddizione dialettica riflettono il grande problema del tempo, la difficoltà del rapporto tra individuo e collettività. L’esistenza, che non si giustifica più con un fine oltre il mondo, deve trovare tutto il suo significato nel mondo: o si vive interamente del rapporto con gli altri e l’io si dissolve in una relatività senza fine, o l’io si assolutizza ma rompe ogni rapporto con ciò che è altro da sé. Nessuna delle due soluzioni è possibile senza l’altra: chi vive del rapporto col mondo sentirà sempre l’ansia di ciò che è oltre, chi vive oltre il mondo sentirà sempre l’assurdità della propria solitudine.
Nell’arte moderna, che è tale proprio perché è totalmente disgiunta dalla concezione classica dell’arte, la dialettica dei due termini muterà continuamente aspetto, ma rimarrà sostanzialmente immutata. La storia dell’arte moderna, dalla metà del Settecento ad oggi, è la storia spesso drammatica della ricerca, tra l’individuo e la collettività, di un rapporto che non dissolva l’individualità nella molteplicità senza fine della collettività e non la ponga al di fuori come estranea o contro come ribelle.