CLAUDE MONET
La Grenouillère
La Grenouillère; 1869; olio su tela; 74,6×99,7 cm. New York, Metropolitan Museum of Art.
Già nella tela La Grenouillère, che può essere considerata una delle prime veramente impressioniste, si precisa la novità della concezione di Monet. Il titolo («lo stagno delle rane») era il nome di uno dei vari ristoranti che si trovavano nell’isolotto di Croissy sulla Senna, meta delle gite, domenicali dei parigini e luogo di ritrovo degli artisti in mezzo alla natura. L’opera non trasmette il sentimento romantico della natura, ne si limita a esemplificare la pittura en plein air tanto cara a Monet e ai suoi amici: qui la natura, invece di essere rappresentata come qualcosa di distaccato da noi, «vive» in tutta la sua mobilità e continuità e noi «viviamo» in mezzo ad essa.
Protagonista del quadro è l’acqua che, a causa del punto di vista leggermente rialzato, domina buona parte della scena; anzi, poiché barche e pontili sono parzialmente tagliati fuori dall’inquadratura, sentiamo anche la prosecuzione laterale di essa oltre i limiti della cornice. Non è un caso che l’acqua sia un elemento fondamentale nella pittura impressionista. Essa è costituzionalmente mobile e riflettente: tutto ciò che la sovrasta e la circonda (cielo, alberi, uomini, barche, pontili) vi si specchia con i suoi diversi colori, che si influenzano reciprocamente, si fondono e, cosi modificati, ne vengono respinti, tornando a influenzare a loro volta quelli degli stessi oggetti riflessi, con variazioni continue in relazione al perpetuo, inarrestabile movimento della superficie.
Ma per Monet l’acqua non è soltanto uno specchio moltiplicatore di colori in movimento. Esprime piuttosto il senso della relatività di tutti i nostri rapporti con ciò che ci circonda, non soltanto perché i riflessi variano continuamente, ma, ancor più, perché essa, pur presente e tangibile fisicamente, pur sempre uguale in apparenza, non è mai la stessa.
Nel dipinto la mobilità dell’acqua e dei riflessi è resa evitando la fusione dei colori, che sono distribuiti a macchie accostate a forma di piccole strisce orizzontali.
Il soggetto, come è tipico negli impressionisti, non ha niente di importante o, meglio, non ha niente di eroico: è un luogo qualsiasi, come spesso vediamo nelle pitture di Monet.
Nel 1873 egli dipinge Papaveri dove protagonista è la luce solare che splende su una scena riprodotta con tocchi di colore – e non con un disegno accurato e con volumi calcolati – eppure evidente ai nostri occhi come se il pittore avesse voluto rendere i particolari. Protagonisti della composizione sono proprio i papaveri, macchie di colore vivo, puro, sulla tela rarefatta dell’erba alta. Ad essere riprodotta, comunque, è soprattutto l’atmosfera di un giorno estivo: Paria, la luce, le vibrazioni del paesaggio che l’artista sente dentro di sé ed esprime con tecnica nuova. Siamo oltre il tentativo realista di riproduzione di quanto si presenta all’occhio: quella che vediamo è l’emozione di chi vede, la sua sensibilità visiva, l’impressione che rimane in lui nel ricordo di questo momento della sua esistenza.
Papaveri; 1873; olio su tela; 50X65 cm.
Parigi, Musée d’Orsay.
Le serie
Dopo il 1881 Monet si reca ogni anno sulla costa settentrionale (Etretat, Fécamp, Le Havre) dove dipinge più volte gli stessi soggetti, anche uno di seguito all’altro, perché ciascuno di essi ha infiniti aspetti a seconda dell’ora, delle condizioni climatiche e dello stato d’animo dell’autore, le cui reazioni inferiori sono sempre nuove.
Si spiegano cosi le serie cui Monet si dedica dopo il 1890, quando il gruppo impressionista ormai si è sciolto, portando alle estreme conseguenze i suoi principi in un’elaborazione personale che lo accompagnerà fino alla morte: i pioppi, i covoni, il Tamigi, Venezia e, soprattutto, La Cattedrale di Rouen e le Ninfee.
La Cattedrale di Rouen è stata dipinta da Monet in cinquanta quadri, molti dei quali hanno per soggetto la sola facciata, vista dalla stessa angolazione eppure sempre diversa, perché diversa è l’ora del giorno e quindi l’illuminazione e perché – è opportuno insistere su questo punto – è continua- mente diverso il nostro modo di essere e, quindi, il nostro rapporto con la realtà.
Come un musicista può comporre un numero indefinito di variazioni su un tema (anche non suo e anche celebre), cosi Monet varia senza alcun cedimento qualitativo un tema ben noto a tutti: la Cattedrale di Rouen, uno dei più importanti monumenti gotici francesi. Proprio la celebrità del monumento, meta di visite turistiche, riprodotto in migliaia di fotografie, offre a Monet l’occasione di superare la banalità della cartolina illustrata che inquadra equilibratamente il soggetto: la facciata è vista obliquamente e solo in parte; le torri e i fianchi dell’edificio ci sfuggono; non ce ne viene mostrata ne l’altezza ne la larghezza; possiamo liberamente completare l’immagine secondo la nostra sensibilità, cosi che da semplici spettatori ci trasformiamo in attori, diventando compartecipi della creazione, che non è statica (ossia già compiuta e perfetta), ma dinamica (ossia in divenire e perfettibile). Per dipingere questa serie di quadri, Monet si era collocato a una finestra e, come in molti altri casi, cambiava le tele via via che mutava la luce del sole. Ancor più audace è la serie delle Ninfee, alla quale Monet si è dedicato ostinatamente per anni, ispirandosi soltanto ai fiori del laghetto del suo giardino nella casa di Giverny, il paese sulla riva della Senna dove egli si ritirò a vivere e dove poi mori. Alcune di queste tele si trovano oggi raccolte a Parigi in due sale ovali (Musée de l’Orangerie), cosicché lo spettatore ne è interamente circondato, in una sorta di totale comunanza con la natura; ciascuno dei dipinti non è un riquadro distaccato da noi, quasi una finestra aperta (ne parlava, vari secoli prima, Leon Battista Alberti), da cui viene escluso tutto ciò che non rientra nella cornice; è piuttosto il mondo naturale primigenio nel quale siamo chiamati a vivere; scrissero con acutezza due amici che videro le tele nello studio di Monet: «Un panorama fatto d’acqua e ninfee, di luce e di cielo; in quell’infinità acqua e cielo non avevano ne inizio ne fine». A causa della forma ovaleggiante delle sale in cui è esposta e della grandezza materiale dell’opera, nessuna fotografìa, ne dell’insieme ne di qualche dettaglio, può rendere l’idea del coinvolgimento totale e dell’emozione da cui si è colti quando si visitano i due ambienti che Andre Masson definì – forse un po’ esageratamente – «la Cappella Sistina dell’impressionismo» (1952).
In molte di queste tele degli ultimi anni di Monet è tale la qualità trasfìguratrice che, per quanto l’oggetto rappresentato sia riconoscibile, si può parlare di astrattismo, perché, più che il tema, interessano l’artista il rapporto cromatico e la libertà inventiva delle forme. Monet, che muore all’inizio del secondo quarto del Novecento, non è dunque un sopravvissuto alla sua epoca. Se l’impressionismo come fenomeno storico era ormai finito da una cinquantina d’anni, le opere tarde di Monet, pur restando fedeli alle origini del movimento, conducono l’impressione visiva a una tale rarefazione da aprire la strada alle più audaci esperienze del Novecento.