Piet Mondrian
Piet Mondrian (Amersfoort, 1872-New York, 1944) inizia la sua attività nell’ambito di una pittura realista di ascendenza genericamente postimpressionista, con tecniche complesse e con riferimenti alla tradizione paesaggistica olandese.
Negli anni intorno al 1910 l’artista intraprende un processo astrattivo dalla realtà, graduale ma continuo, come dimostra la nota serie degli alberi: da L’albero rosso a L’albero argentato, a Melo in fiore (per citarne alcuni), nel giro di pochi anni la sua rappresentazione dell’oggetto si trasforma, pur mantenendo lo spunto naturalistico, in armonico rapporto di linee, colori e piani.
L’albero rosso; 1909-1910; olio su tela; 70×99 cm. L’Aia, Gemeentemuseum.
Nel primo dei quadri citati, attraverso il movimento tormentato dei rami e il colore (rosso fiammeggiante, come lingue di fuoco; blu cupo, con varietà tonali più chiare), il pittore esprime la propria reazione emotiva di fronte alla natura, ponendosi nella direttrice vangoghiana-fauvista, mentre la prevalenza di linee curve è un’eco dell’Art Nouveau.
Nell’Albero argentato, il colore, che predominava per qualità e quantità nella precedente composizione, è sostituito da tonalità fredde, perciò più «riservate», per cosi dire, meno emozionali e violente. L’albero, pur ancora riconoscibile, da luogo piuttosto a soluzioni stilistiche nell’organizzazione reciproca delle linee.
L’albero argentato; 1911; olio su tela; 78,5×107,5 cm. L’Aia Gemeentemuseum
Nel Melo in fiore, infine, dominano solo le linee, anche se il loro andamento deriva da quello dei rami dei due alberi precedenti. Nella serie degli alberi, l’astrazione consiste in una progressiva semplificazione delle forme e degli spazi, in una ricerca di «stile», ossia di purificazione, ottenuta regolarizzando le infinite varietà della natura, riconducendole alla loro essenza e, quindi, cercando di capire la sostanza della realtà piuttosto che copiarla.
Melo in fiore; circa 1912; olio su tela; 78×106 cm. L’Aia Gemeentemuseum
Il dato «naturale» è tuttavia sempre presente; la forma è astratta, ma suggerita dalla realtà – che viene interpretata secondo la sensibilità individuale del pittore – ed è mossa, contrastata, in qualche modo ancora drammatica.
Al raggiungimento di questa concezione non è estraneo il cubismo, che Mondrian ha modo di conoscere a Parigi, dove si reca nel 1912 restandovi per qualche anno; ma quando, nel 1914, torna in Olanda ed è costretto a rimanervi fino al 1919 per lo scoppio della guerra e l’invasione tedesca del Belgio, l’artista, ripensando a tutte le esperienze di quegli anni, incontrandosi con altri artisti e aderendo infine a De Stijl (1917), viene elaborando un modo nuovo, originale di intendere la pittura, che lo conduce, passo dopo passo, all’astrattismo assoluto. Il cubismo, per Mondrian, non era riuscito a giungere alle conseguenze estreme della sua scoperta, perché restava legato alla realtà, limitandosi a scomporla e ricomporla in una diversa disposizione delle facce dei volumi. «L’intenzione del cubismo – dirà molti anni dopo – era di rendere il volume. Cosi era mantenuto lo spazio tridimensionale, cioè lo spazio naturale. Il cubismo restava dunque un modo di espressione sostanzialmente naturalista».
Mondrian, abolendo la terza dimensione e giungendo all’estremo dell’astrattismo, non cerca soltanto i valori esclusivamente estetici indipendentemente dai contenuti emotivi, ma tenta addirittura di superare l’”individuale”. Poiché per lui il dramma umano nasce dal contrasto fra il sentimento individuale e l’aspirazione all’universale e, quindi, fra l’egoismo del singolo e l’armonia collettiva (e forse ciò gli era suggerito dalla guerra, spaventosa violenza dell’uno sull’altro, rottura di ogni equilibrio, di ogni rispetto reciproco), scopo dell’arte deve essere quello di farsi modello di perfezione razionale, di armonia suprema.
L’attività estetica perciò non è fine a se stessa; anzi, ha una finalità etica, perché può condurre l’uomo a specchiarsi nella perfezione dell’opera d’arte, perfezione non calata dall’alto, ma raggiunta attraverso l’uso della ragione: quella ragione che ha permesso il progresso scientifico moderno, quella ragione che è patrimonio di ognuno e che ognuno può usare per raggiungere l’universale.
Non esiste dunque per Mondrian contraddizione fra tecnica e arte: l’una e l’altra parlano il linguaggio chiaro della logica, non quello confuso dei sentimenti.
La funzione dell’arte non è quella di essere utile all’attività pratica dell’uomo (come per il costruttivismo), bensì quella di innalzarlo verso la perfezione. Questo è il senso politico che deve essere dato alla concezione di Mondrian: utopistica, certo, ma di grande impegno morale.
Perciò la pittura non deve copiare la realtà esterna, che è apparente e transitoria; anche quando, nei secoli precedenti, tema della pittura era la realtà, il suo valore consisteva non nel soggetto ma nella sua resa attraverso il linguaggio pittorico: linguaggio che, per Mondrian, aveva anche allora come strumenti indispensabili «la linea e il colore».
Bisogna quindi andare fino in fondo: non nascondere i rapporti di linea e colore dietro le forme particolari del soggetto rappresentato, ma mostrarli con chiarezza indipendentemente dal soggetto. E fin qui l’idea di Mondrian coincide con quella di Kandinskij e di tanti altri.
La sua originalità è poi nel tentativo di esprimere con la pittura non il sentimento individuale, ma il sentimento collettivo, universale, mediante un’unica forma che egli chiama «neutra», il rettangolo, perché in esso la linea non ha l’ambiguità della curva ma la decisione inequivocabile della retta e perché nei suoi angoli si equilibrano in unità le due forze contrastanti delle diverse direzioni della linea: quella verticale e quella orizzontale (ecco il raggiungimento della serenità, al di sopra del contrasto).
Questo per Mondrian è lo scopo della pittura moderna, la «neoplastica», termine che egli usa preferendolo a «De Stijl», dando evidentemente alla parola «plasticismo» non il significato criticamente esatto di evocazione in pittura della volumetria scultorea, ma quello di rapporti armonici.
Perciò il «neoplasticismo», invece che tendere all’illusione del rilievo, è bidimensionale e limita i colori a quelli elementari per evitare che, nel loro rapporto reciproco, si torni nuovamente a una sensazione tridimensionale.
La pittura, dunque, è solo pittura: è «pura visibilità» (Konrad Fiedler) e non obbedisce alle leggi della natura, ma solo alle proprie; non imita niente di esterno; è, secondo quanto aveva scritto Maurice Denis, «una superficie piana ricoperta di colori organizzati secondo un certo ordine».
È questa, per Mondrian, la sola e vera realtà che deve essere perseguita dall’artista «neoplastico», la cui pittura perciò egli preferisce chiamare «concreta» perché, come afferma un altro degli esponenti di De Stijl, «nulla è più concreto e reale di una linea, di un colore, di un piano» (Theo Van Doesburg).
Come abbiamo detto, Mondrian giunge per gradi agli estremi limiti dell’astrattismo. Dopo la serie degli alberi e il superamento del cubismo, dipinge linee scure orizzontali e verticali su fondo chiaro, come «segni» aritmetici di «più» e di «meno» (sono le tele chiamate, appunto, Più-meno).
Composizione con linee; 1917; olio su tela; 1,08×1,08 m. Otterlo (Olanda), Rijskmuseum Kroller-Muller.
Successivamente passa alla composizione di quadrati colorati su fondo bianco e di una serie di quadrati sull’intera superficie (come una scacchiera) oppure di quadrati e rettangoli, per giungere infine, dopo il 1920, al massimo della semplificazione e della chiarezza con grandi rettangoli delimitati da forti strisce nere sovrapposte, affinché il colore dell’uno non influenzi quello dell’altro, riducendo i colori stessi ai primari (rosso, giallo, blu) intensamente distesi in superficie e alternandovi tinte neutre (bianchi e grigi).
Composizione con piani di colore; 1917; olio su tela; Collezione privata
Composizione con rosso,giallo,blu; 1921; olio su tela; 1,03×1,00 m. L’Aia Gemeentemuseum.
Per molti anni Mondrian dipinge sistematicamente con questo stile personalissimo, con sottili variazioni nelle dimensioni delle forme geometriche, nella distribuzione cromatica, nello spessore delle linee. Ma non si tratta di una ripetizione monotona e meccanica di se stesso, perché ognuna di queste variazioni genera un totale spostamento di tutti gli equilibri interni del quadro.
Mondrian ha raggiunto l’assoluto, la perfezione della forma; ogni modifica sarebbe impossibile, perché ciò che è perfetto non è perfettibile: è immobile e immutabile. Per questo si è accusato il pittore di aridità matematica. E, certo, è vero che in Mondrian si ha il senso «aureo» della precisione del calcolo; ma soltanto una tesi romantica può scambiarlo per freddezza, perché, come un Piero della Francesca moderno, Mondrian non fa matematica; «esprime» piuttosto il sentimento della perfezione matematica e quindi della bellezza: quella perfezione e quella bellezza ideali cui l’uomo aspira e che può capire, quasi in una ripresa neoplatonica, attraverso la ragione.
Quando dopo il 1938, in seguito agli eventi bellici, lascia Parigi dove vive dal 1919 trasferendosi prima a Londra e poi (1940) a New York, a contatto con la tumultuosa civiltà americana, e forse anche in relazione alle ore drammatiche che tutto il mondo vive, le sue superfici dipinte si frantumano; si amplia, con l’aggiunta dei secondari e dei terziari, la gamma dei colori (che si alternano con frequenza), il quadro è sottoposto a un nuovo dinamismo.
È un ulteriore aspetto della concezione artistica di Mondrian, della quale solo il sopraggiungere della morte ha interrotto gli sviluppi.
Broadway Boogie-Woogie; 1942-1943; New York, Museum of Modern Art