Giorgio De Chirico

Giorgio De Chirico

 La parola «metafìsica» ricorre spesso negli scritti di Giorgio De Chirico (Volos, 1888- Roma, 1978), a proposito sia di luoghi sia di pitture proprie o dei grandi maestri del passato.

L’espressione dell’essenza della realtà è il che anche De Chirico attribuisce al termine parlando dell’ di tutti i tempi, che interpreta sempre la realtà e non si limita mai a descriverla, neppure quando sembra più aderente al suo aspetto esteriore.

De Chirico tuttavia, nel corso della sua vita, è venuto precisando meglio il del termine cosi da rendere comprensibile, attraverso esso, la sua pittura. Metafisico è ciò che è avulso dalla logica ambientale in cui siamo abituati a vederlo: un qualsiasi isolato dal contesto in cui vive e inserito in un altro (per esempio , un guanto di gomma appeso accanto ad una testa di gesso e sopra una verde) o, più semplicemente, guardato da noi intensamente e per un tempo prolungato e quindi staccato da quelli vicini; una piazza, solitamente animata, completamente vuota; la superficie dell’oceano, “non tanto per l’idea della distanza chilometrica che sta fra noi e il suo fondo quanto per tutto lo sconosciuto che si cela in quel fondo”; l’arco di cerchio perché ha “qualcosa di incompiuto che ha bisogno ed è capace di compimento»; «il triangolo […] come simbolo mistico e magico»; i mobili, quando, invece che collocati nelle stanze ad adempiere la loro funzione, sono su un marciapiede, per esempio durante un trasloco, o «in un paesaggio deserto», in una «piana della Grecia, ricoperta di rovine, oppure nelle praterie anonime della lontana America».

De Chirico, Canto d'amore

Canto d’amore; 1914; olio su tela; 73×59 cm. New York, Museum of Modern Art.

Tutto ciò suscita in noi un’inquietudine, sottile angoscia: quasi un di paura perché insolito, inaspettato, a-logico.

De Chirico non lo dice, ma è possibile che a lui, nato in Grecia da genitori italiani, e vissuto in Grecia fino all’età di sedici anni, le rovine grandiose dell’antichità classica (quelle rovine che spesso compaiono nei suoi quadri suggerissero già da allora qualcosa di metafisico: perfette nella misura, ma frammentarie, non più collegate all’ambiente nel quale erano state create, e quindi illogiche, spaesate nel mondo moderno; e tuttavia dotate di una loro vita, quella vita che ognuno do noi immagina in loro, quasi fossero testimoni e giudici, muti ma pensanti, di secoli di storia.

Certo dalla Grecia e dai suoi primi insegnanti deriva a De Chirico il della perfezione, che egli ha sempre ricercato, anche dal punto di vista tecnico (non dimenticando che tèchne, “tecnica” in greco significa “arte”), e che lo ha posto in posizione polemica nei confronti di tutti gli artisti contemporanei: “Se oggi il mio maestro Mavrudis fosse a Roma potrebbe condurre a scuola tutti i nostri “geni” modernisti ed insegnare loro che prima di essere cèzaniani, picassiani, soutiniani o matissiani e prima di avere l’emozione, l’angoscia, la sincerità, la sensibilità, la spontaneità, la spiritualità, farebbero meglio ad imparare a fare una buona e bella punta al loro lapis e poi con quella punta cercare di disegnare bene un occhio, un naso, una bocca o un orecchio”.

Questo atteggiamento potrebbe far pensare a un pittore ancorato al passato e perciò in­capace di comprendere la propria età. In realtà De Chirico, come tutta la cultura europea degli inizi del Novecento, cerca di esprimere la realtà intima. E non è un caso che, poco apprezzato in Italia, De Chirico lo fosse in Francia, nell’ambiente che orbitava attorno ad Apollinaire. L’inquietudine della metafisica è l’inquietudine di quegli anni: l’insicurezza, l’a­spettativa di qualcosa di ignoto e terribile che può accadere da un momento all’altro.

Per capire questa modernità di De Chirico bi­sogna aggiungere, a lato dell’educazione clas­sica, gli studi compiuti a Monaco, dove la fa­miglia si era trasferita dopo la morte del padre, nel 1904 (si ricordi l’importanza della città tedesca in quegli anni), la conoscenza delle  pitture di Böcklin, con il loro surrealismo, e la lettura approfondita di filosofi come Nietzsche: «Ero un ammiratore di Nietzsche – dice De Chirico – e capivo benissimo la natura esatta delle innovazioni del pensiero di questo filosofo. Tale novità è una strana e profonda poesia, infinitamente misteriosa e solitària, che si basa sulla Stimmung (uso questa pa­rola tedesca molto efficace che si potrebbe in italiano tradurre con la parola «atmosfera», nel morale), si basa, dico, sulla Stimmung del pomeriggio d’autunno, quando il cielo è chiaro e le ombre sono più lunghe che d’estate, poiché il sole comincia ad essere più basso. Questa sensazione straordinaria si può trovare, dico, nelle città italiane».

E’ un passo importante che spiega la genesi di una delle sue serie pittoriche più note, quella delle Piazze d’Italia, la cui prima idea risale al 1910. In una di esse, del 1915, sono presenti tutti gli metafisici: le strane lunghe ombre, innanzi tutto, nette e contrapposte alla luce e al colore, caldo ma terso, privo anzi di atmosferiche; la geometrizzazione delle prospettive e degli alti portici, quei portici che, per il loro coronamento ad arco di cerchio che ha qualcosa di incompiuto, suscitano “un’impressione eminentemente metafisica”; la solitudine, rotta soltanto da due piccole figure umane sulla sinistra e, sul fondo, da un treno a vapore che passa sbuffando, seminascosto da un muro di mattoni; la statua classicheggiante, al centro, in posa di recumbente sul basso piedistallo: la statua «sulla piazza – nota De Chirico – ha sempre un aspetto eccezionale» perche ha forma umana e, al tempo stesso, è immobile, marmorea, perenne.

De Chirico,La piazza d'Italia

La piazza d’Italia; 1915; olio su tela; 64×51 cm. Roma, collezione privata.

Ufficialmente la «pittura metafìsica», come ormai tutti la chiamiamo, nasce a Ferrara dal­l’incontro di Carrà (che vi era stato ricoverato nell’ospedale militare per disturbi psichici) con De Chirico, che vi prestava servizio mi­litare dal 1915.

Tuttavia, come si è visto, essa esisteva già, anche se indubbiamente al suo ulteriore svi­luppo può avere contribuito sia il sodalizio fra i due pittori, sia l’aspetto della città, un tempo capitale fiorente dell’importante stato degli Este, in quegli anni invece «la più metafisica di tutte le città» (come la chiama De Chirico) per le grandi piazze ornate di monumenti dalle lunghe ombre portate, per la perfetta sim­metria geometrica dell’«addizione erculea», per la solitudine innaturale di vie e piazze sulle quali si affacciano nobili palazzi inutilizzati, come  in una “città morta” dalla quale, per ragioni misteriose, gli abitanti fossero misteriosamente scomparsi.

A Ferrara è ispirata infatti una delle tele più emblematiche dell’ di De Chirico: Le Muse inquietanti. Anche qui i colori sono caldi, ma fermi e privi di atmosferiche; la luce è bassa, le ombre lunghe e definite nettamente; la prospettiva, accentuata dalle linee convergenti in profondità, crea un vasto allucinante; mentre sullo sfondo, nella parte destra, il castello estense ci richiama al grande passato della città, nella parte sinistra le ciminiere ci riportano al suo presente. Ma la città è deserta, le ciminiere non fumano, tutto è statico e sospeso. In questo luogo sognato non abitano uomini, esseri viventi mobili e transitori ma solo manichini, che degli uomini hanno l’aspetto, non l’essenza. I ma­nichini, che compaiono tante volte nei qua­dri di De Chirico, hanno questo significato.

De Chirico, Le Muse inquietanti

Le Muse inquietanti; 1917; olio su tela; 97×66 cm. Milano, Collezione Mattioli.

 In altri casi il manichino diventa il solo protagonista, come nel contemporaneo Ettore e Andròmaca. Entro l’ampia prospettiva con la consueta atmosfera rarefatta e sospesa, contro un cielo cupo, i due personaggi si stringono nell’ultimo abbraccio presso le «Porte Scee», prima del duello di Ettore con Achille che segnerà la morte dell’eroe troiano; ma non sono personaggi reali e neppure autentici manichini: somigliano alla forma dei manichi per gli che li costituiscono; però questi singoli elementi sono figure astratte come è il complesso. Per raggiungere questa astrazione è importante in De Chirico, accanto al colore, il disegno, da sempre fattore idealizzante della realtà.

De Chirico, Ettore e Andromaca

Ettore e Andromaca; 1917; olio su tela; 90×60 cm. Milano, Collezione Mattioli.

 

Come tutte le avanguardie, anche quella della pittura metafisica ha avuto breve durata. Dagli anni Venti, fino alla morte, De Chirico si orienterà verso una pittura sontuosa e Baroccheggiante, dagli splendidi colori e da grandi linee curve, in qualche modo collegabile al pittore fiammingo Rubens che egli ha sempre ammirato.

De Chirico,Cavalli in riva al mare Egeo

 

Cavalli in riva al mare Egeo; 1963;  olio su tela; Collezione privata

Restano però gli accostamenti strani: per esempio, i cavalli con code e criniere fluenti e sovrabbondanti, raffigurati liberi su rive del mare greco, azzurro e biancheggiante di schiuma, mentre, sparsi qua e là, compaiono frammenti di colonne e, sul fondo ruderi di antichi templi: ricordi della fanciullezza dell’artista e, al contempo,testimonianza del suo legame con quel momento della storia umana.

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